Una disomogenea marea di russi, europei dell’Est, italiani e tedeschi, cinesi e malesi si aggira per la «città del peccato» in cerca di sollazzi più o meno proibiti. In effetti Patong, una delle mete più gettonate dell’ultra nota isola di Pukhet, ne ha per tutti i gusti.

Bangla Road, la via centrale di una cittadina cresciuta a dismisura e cementificata sino all’inverosimile, si anima soprattutto la sera con dj europei che mettono a dura prova le orecchie, circondati da bar e go-go bar dove la prostituzione non è per nulla nascosta ma anzi strombazzata senza imbarazzo con ogni tipo di richiamo. Bangla è tanto popolare e alla luce del sole, che è meta anche di coppiette e persino famigliole, poco intimorite da signorine imbellettate e maschi rasati ipertatuati come le loro compagne che si fanno instancabilmente immortalare in pose da postare su Instagram.

IN QUESTA FIERA DEL KITSCH globale, tra spiagge dorate attraversate da rumorose moto acquatiche su cui si affacciano ristoranti con menu in russo e piatti georgiani, ritrovi di lusso accanto a baracchette di street food, sta un po’ il manifesto di dove va la Thailandia e di come, in questo inizio secolo, la società siamese si sia ritagliata un posto più che decoroso nella classifica del turismo internazionale.

Il sito ufficiale del turismo (che tra le dieci lingue in cui è tradotto annovera anche l’italiano) vanta Bangkok come seconda città più visitata al mondo con 25.8 milioni di turisti nel 2019 (appena dopo Hong Kong) e 39.7 milioni di turisti nel Paese l’anno scorso di cui un terzo cinesi.

Un vanto misto a preoccupazione visto che il coronavirus mette la Thailandia al quarto posto tra i Paesi infettati con oltre trenta casi accertati. L’inevitabile riflesso sono le cancellazioni dei pacchetti all inclusive prenotati nella Repubblica popolare cinese.

Le 24 spiagge «smoke free» (con pene fino a un anno di reclusione!) o la campagna «Thailand Reduce Waste» sembrano però solo una verniciatina su quello che appare il disastro annunciato di una cementificazione selvaggia, come ha ricordato Bill Bensley a circa mille delegati del settore turistico al recente Thailand Tourism Forum 2020 di Bangkok.

Bensley, è uno che se intende. Progetta alberghi di gran lusso ma dal tocco delicato che, a suo dire, rispettano l’impatto ambientale. Ha scioccato la platea, riferisce il Pukhet News: «Vuoi che i tuoi figli e nipoti vivano su un pianeta bruciato, con foreste distrutte, mare pieno di plastica, aria velenosa e fauna selvatica scomparsa o vuoi lavorare per un futuro dove respirano gli edifici, tutto ciò che mangiamo è organico e la natura prospera?».

Una stoccata che non risolve il problema del sacrosanto diritto del turismo di massa declinato però dalla Thailandia con una cementificazione forsennata benché, ogni tanto, appaia qualche leggina che limita le costruzioni che hanno fatto di piccoli borghi enormi paesoni-boutique per tutte le tasche.

A PHUKHET CITTÀ, la capitale dell’isola, si respira un’altra aria, perlomeno nel suo cuore, poco visitato dai turisti diretti a Patong e spesso ignari di questa cittadella con edifici di stile sino-portoghesi restaurati con intelligenza a salvaguardia di un patrimonio culturale abbastanza unico visto che Phukhet, grazie alla sua posizione, era stata in passato un grande porto di scambi commerciali tra il Mar Cinese e le Andamane. Adesso che cinesi e tailandesi stanno pensano addirittura a un canale che, nella parte più stretta del Paese, metta in comunicazione i due mari bypassando lo stretto di Malacca, la vocazione di una Pukhet non solo balneare potrebbe tornare in auge.

QUESTO PAESE apparentemente stabile, nasconde in realtà un’instabilità politica che decenni di dittatura, alternati a brevi periodi di democrazia, non riescono a nascondere.

L’ultimo colpo di Stato si deve nel maggio del 2014 al Consiglio nazionale per la pace e l’ordine che, col consenso reale, ha dominato la politica tailandese sino, teoricamente, alle elezioni del 2019 che avrebbero dovuto sciogliere il governo dei militari.

Ma con una abile manovra il generale Prayut Chan-o-cha è riuscito a rimanere in sella ininterrottamente dal 2014 riuscendo a scamparla anche nel 2019 grazie al sostegno di piccoli partitini, magheggi della Commissione elettorale e soprattutto grazie a un sistema bloccato che, per eleggere il premier, richiede i voti della Camera bassa e del Senato: la prima viene eletta, la seconda… è stata scelta dal generale.

PER METTER FUORI GIOCO i suoi avversari più temibili, il sistema ha bloccato la carriera politica del giovanissimo imprenditore progressista Thanathorn Juangroongruangkit che, essendosi portato a casa un discreto numero di voti, un mese dopo l’elezione a deputato è stato estromesso dalla commissione elettorale per irregolarità al momento della candidatura.

Il suo partito, Future Forward, che ha ora 76 deputati su 500 dopo averne espulsi 4 che avevano tradito gli impegni di voto, è in difficoltà e rischia – prassi ciclica della politica locale – la dissoluzione anche se per ora ha vinto in tribunale.

Dinamico, popolare e con idee socialdemocratiche, Thanathorn deve ora risalire la china. Gli danno una mano i movimenti sociali che non hanno smesso di criticare il premier e il sistema che ha garantito continuità all’ex dittatore. I raduni di piazza a Bangkok non raccolgono forse un’enorme massa di persone, ma sono sempre assai più folti delle contromanifestazioni promosse da Prayut appena c’è sentore di mobilitazione popolare.

L’ultima è del 12 gennaio scorso. Gli attivisti hanno fatto una specie di maratona chiamata «Run against dictatorship». Oltre che con le contestazioni, il governo del generale – già preoccupato per una stagione troppo secca – ha dovuto fare i conti anche con la tegola del sergente Jakrapanth Thomma, che sabato 8 gennaio ha ammazzato il suo comandante e alcune decine di pedoni barricandosi in un centro commerciale dove è stato ammazzato dopo 17 ore di fiato sospeso. Non ha proprio giovato al generale che ha promesso più sicurezza nelle caserme. Le sue.