La nuova storia dei Mau Mau
Intervista Il fotografo e documentarista belga Max Pinckers racconta il suo progetto «State of emergency», in mostra a Torino. «Con i combattenti per la libertà abbiamo elaborato una contro-narrazione»
Intervista Il fotografo e documentarista belga Max Pinckers racconta il suo progetto «State of emergency», in mostra a Torino. «Con i combattenti per la libertà abbiamo elaborato una contro-narrazione»
State of Emergency – Harakati za Mau Mau kwa Haki, Usawa na Ardhi Yetu è il progetto del fotografo belga Max Pinckers (1988) ospitato a Palazzo Madama nell’ambito della prima edizione di Exposed Torino Foto Festival dal titolo New Landscapes – Nuovi Paesaggi, rassegna internazionale curata da Menno Liauw e Salvatore Vitale (visitabile fino al 2 giugno).
Pinckers che si definisce «documentarista speculativo», in questo progetto realizzato tra il 2014 e il 2024, è partito dall’analisi dell’Archive of Modern Conflict di Londra con il desiderio di approfondire la conoscenza della storia del Kenya relativa al movimento politico nazionalista e anti-coloniale Mau Mau, l’organizzazione di donne e uomini che si è battuta per la libertà del paese africano fino al 1963, quando è stata proclamata l’indipendenza dal Regno Unito – il Kenya era colonia britannica dal 1920 e, dal 1895, Protettorato.
L’autore propone una contro-narrazione basata su «documenti immaginati», ricostruiti in base alle testimonianze dei sopravvissuti, protagonisti essi stessi di una vicenda che appartiene al passato quanto al presente, in una dialettica di avversione e riconciliazione.
Parte integrante del lavoro fotografico, realizzato in collaborazione con diverse istituzioni (dal Kenya National Archives and Documentation al Kenya Human Rights Commission, fra gli altri) è il libro State of Emergency – Harakati za Mau Mau kwa Haki, Usawa na Ardhi Yetu (2024), pubblicato in inglese e swahili con la collaborazione dell’Associazione dei veterani Mau Mau di Murang’a, Nanyuki e Mukurwe-ini.
Può raccontarci qualcosa del suo progetto?
Nel 2014 sono stato invitato dall’Archive of Modern Conflict di Londra a lavorare sul loro archivio. È lì che è avvenuto il mio primo incontro con una serie di documenti prodotti dall’amministrazione coloniale britannica, datati a partire dagli anni ’50, che erano dichiaratamente una sorta di propaganda sulla narrativa del gruppo chiamato Mau Mau. In quei documenti, erano descritti come criminali, terroristi e selvaggi che attaccavano gli insediamenti e causavano distruzione nella società coloniale del Kenya. Come fotografo sono sempre interessato alla relazione tra immagine e immaginario con realtà, verità e propaganda che è l’estrema versione della narrativa ideologica.
Nel 2015 sono andato per la prima volta in Kenya, in realtà senza sapere esattamente cosa avrei fatto ma con l’idea di cercare più informazioni. Lì ho potuto constatare che i Mau Mau non erano terroristi ma combattenti per la libertà e l’indipendenza del paese. Più trovavo informazioni e più mi interessavo alla questione. Incontrai anche Elijah Kinyua Ngang’a (aka General Bahati), che all’epoca era il presidente nazionale dell’Associazione dei veterani Mau Mau, purtroppo nel 2021 è deceduto.
Gli mostrai il materiale documentario che avevo raccolto e insieme cominciammo a pensare di realizzare un documento fotografico con nuove immagini come contro-narrazione rispetto a quella dell’archivio britannico. Il progetto è iniziato così. Collaborare con i National Museums of Kenya mi ha, poi, permesso di recarmi in molti siti storici importanti del paese. Ovunque andassi, parlando con la gente ho realizzato che il periodo tra gli anni ’50 e ’60, in Kenya, era considerato stato d’emergenza. È emersa anche la risposta estrema e violenta degli inglesi contro i combattenti per la libertà con la costruzione di centinaia di campi di detenzione, teatro di numerosissime atrocità e sofferenze. Fino al 1963, quando gli inglesi furono costretti a lasciare il paese e fu proclamata l’indipendenza, lo stato d’emergenza giustificava impiccagioni e altre esecuzioni sommarie. Una parte molto importante del progetto è costituita proprio dal materiale d’archivio conservato nel Regno Unito, fotografie e documenti che non erano accessibili ai kenioti, perché non erano digitalizzati e per poterli consultare bisognava andare di persona a Londra. Ho fatto oltre mille e duecento fotografie di quei documenti che ho portato con me in Kenya, mostrandole ai veterani Mau Mau che avevano vissuto quell’esperienza. Sono loro che hanno deciso come lavorare sull’archivio.
Le fotografie ricostruiscono scene reali?
Preferisco chiamare il lavoro «dimostrazione». Non è una rievocazione ma una dimostrazione di quello che è successo e sono gli stessi protagonisti ad interpretare una narrativa che ora si può combinare con quella degli archivi inglesi. I veterani si sono organizzati in associazione anche perché sono in una fase di riconoscimento del risarcimento da parte del governo britannico per essere stati detenuti nei campi, torturati e maltrattati. Per la prima volta, nel 2013, il governo britannico ha ammesso le sue responsabilità e risarcito coloro che richiedevano l’indennità che però è stata data solo a 5 milioni di persone per un totale di 20 milioni di sterline. Gli inglesi hanno confessato di aver conservato un archivio segreto di documenti che è stato aperto al pubblico solo recentemente. La maggioranza degli archivi fu data alle fiamme o distrutta per cancellare ogni traccia.
Il libro è un altro elemento fondamentale del progetto…
Sì, è il mio contributo a questa narrativa. Naturalmente si tratta solo di una parte della storia, ma sono presenti figure molto importanti. Molti anziani come Peter Irungu Njuguna, Paul Mwangi Mwenja e anche Field Marshal Muthoni che all’epoca della foto aveva 92 anni. Lei è morta lo scorso anno. In Kenya è considerata una eroina nazionale. Nella foto si vedono i suoi lunghissimi dreadlock che chiamava «la storia del Kenya». Ancora oggi il governo keniota non ha restituito ai veterani Mau Mau le terre che gli erano state confiscate dai colonialisti inglesi in accordo con i collaborazionisti. Nel raccontare quello che è successo non faccio che interagire con il passato e con le sue complessità. Con le lacune della storia stessa e dell’archivio.
Nella negoziazione realtà/finzione come si è posto nei confronti dei protagonisti della storia vera?
La cosa importante, per me, è che siano stati proprio loro a scegliere la scena. Il mio compito di fotografo è stato quello di provare a fare al meglio il mio lavoro. Naturalmente le fotografie sono ambigue, non dicono la verità o il falso, si confrontano con la realtà con un senso che è tutto loro. Delle foto che chiamo «dimostrazioni» è proprio la loro ambiguità a interessarmi. Tra le persone ritratte c’è anche Beninah Wanjugu Kamujeru che sta «dimostrando» come era stata interrogata dai collaborazionisti. Sta in piedi mentre risponde alle domande prima di essere rinchiusa in un villaggio che, durante lo stato d’emergenza, era usato come luogo di detenzione. Solo successivamente, consultando l’archivio britannico mi è capitato di vedere una fotografia dell’epoca in cui la scena è molto simile.
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