Visioni

La notte in cui diventammo tutti maradoneti

Il ricordo Ieri è stata giornata di lutto cittadino a Napoli. Esagerato si dirà. E certamente lo è. Così come esagerata fu la gioia – l’allegrezza – che dominò in quella lunga […]

Pubblicato quasi 4 anni faEdizione del 27 novembre 2020

Ieri è stata giornata di lutto cittadino a Napoli. Esagerato si dirà. E certamente lo è. Così come esagerata fu la gioia – l’allegrezza – che dominò in quella lunga serata di 34 anni addietro.

Il lutto cittadino – lutto per tutta la popolazione della città – è stato assolutamente appropriato per il fatto che quella famosa serata vide la partecipazione di tutti: ‘ricchi e poveri’ come recita la canzone del re dei neo-melodici napoletani Nino d’Angelo. Proprio così “ricchi e poveri”: una forza interclassista capace di travolgere il più rigido bordighista napoletano (e ce ne sono ancora).

L’indicatore più netto di questo ‘afflato interclassista’ mi si concretizzò il giorno appresso ascoltando all’Università in maniera indiscreta la conversazione tra due colleghe molto perbene. C’era un qualche consiglio di dipartimento e si erano formati capannelli pre-seduta. Sentivo una delle due che sottovoce diceva all’altra «Anch’io poi mi sono messa un golfino azzurro e sono scesa “giù Napoli”». Giù Napoli è una espressione tipica del lessico della buona borghesia napoletana che abita la parte panoramica della collina del Vomero per indicare il centro storico a partire dai quartieri spagnoli. E in molti quella sera scesero, abbigliati più o meno sobriamente di azzurro, in strada giù Napoli.

Alcuni amici ed io eravamo venuti da Roma apposta per i festeggiamenti per lo scudetto e girammo parecchio per Napoli in lungo e largo. Facemmo concentramento – termine ora desueto ma ancora in auge negli anni 80 – al Calascione a casa nel nostro amico Carlo, che poi ci guidò nel tour in mezzo al popolo di Maradona.

Carlo non era particolarmente tifoso della squadra del Napoli, anzi era abbastanza disinteressato alla tematica. Ma quella sera pareva entusiasta. E la sua irritazione per le modalità della ‘napolitudine’ era archiviata. Finanche l’inno «I ragazzi della curva B» del sullodato Nino d’Angelo gli andava benissimo: una improvvisa conversione per altro non eccezionale in quei giorni a Napoli. Eravamo diventati tutti maradoneti.

Molti di noi eravamo abbastanza incompetenti in materia calcistica. In fondo avevamo sempre tifato più per Napoli che per il Napoli. E quella sera volevamo rimediare alla nostra ignoranza. Tra gli altri la nostra amica Fabrizia, grande scrittrice, espresse tutta la sua sorpresa nello scoprire che le squadre di calcio non erano fatte da 10 bensì da 11 persone.

I cortei e i serpentoni di gente che sfilava si muovevano al ritmo della parodia stonata di una rumba o di un samba sudamericano: «Oh mamma, mamma, mamma – (rip. due volte) – / sai perché mi sbatte (mi raccomando con la esse iniziale)- il corason. /Ho visto Maradona, ho visto Maradona (ancora due volte) / Oh i mammà innamorato son».

Sembrava – mi si perdoni la retorica – che tutti si volessero bene. Tutti a farsi dimostrazioni di simpatia e gentilezza. A un certo punto il pezzo di corteo, o semplicemente di gente che camminava, nel quale noi ci eravamo venuti a trovare arriva in via di Monte Oliveto, una delle strade che rappresentano il limite del centro antico e che per un tratto costeggia la grande Posta Centrale di piazza Matteotti.

Di fronte ai gradini d’ingresso alla piazza c’è (o c’era?) un bar. Il gestore aveva deciso di invitare tutti i passanti a servirsi. Aveva messo fuori una sorta di scaffale con sopra dolci e cose da bere. E la gente si fermava e si serviva. Arriva una macchina, un pulmino, e ne discende un gruppo di persone fatto di donne, uomini, vecchi e bambini. Al centro c’è una giovane donna chiaramente madre di qualche ragazzino della comitiva.

Era molto bene in carne perché a Napoli «chiattezza è mezza bellezza» e iniziò a ballare da sola al suono di una musica che usciva dalla macchina. Ballava con leggiadria ed era ammirata da noi e degli altri astanti che nel frattempo si servivano del generoso ristoro offerto dal barista. Dopo un po’ il pulmino si riempie di nuovo. I passeggeri ringraziano il barista e proseguono.

E noi pure proseguimmo. Carlo ci dirige verso Forcella. Si incontrano amici o semplici conoscenti, ci si saluta, ci si abbraccia. Si commenta. Argomento principale le scritte murali. C’è chi le copia con spirito etnografico. Ne ho sentito più di mille, purtroppo dimenticate. Ovviamente tutti inneggiavano al Napoli e a Maradona o irridevano le altre squadre secondo una antica tradizione del genere «Giulietta è ‘na zoccola» contro il Verona o «Anche i ricchi piangono» per esprimere soddisfazione per qualche sconfitta del Milan di Berlusconi.

Ma voglio concludere di nuovo con l’interclassismo di quella serata. Per nessun motivo specifico ma solo per il fatto che lo incrociavo davanti l’ingresso dell’Università, tentavo sempre di scambiare un saluto con Gianni, il locale parcheggiatore abusivo. Ma non mi aveva mai dato retta.
Questo durava da anni ma il giorno dopo la grande festa Gianni mi venne incontro tutto allegro urlando «Professò v’aggio visto ieri sera a Forcella: I’ che burdello!». Un altro miracolo di Maradona.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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