ExtraTerrestre

La “muraglia” verde che attraversa l’Africa per arginare il deserto

La “muraglia” verde che attraversa l’Africa per arginare il deserto

Cambiamenti climatici La creazione di una barriera di alberi lunga 8 mila chilometri coinvolge 11 nazioni subsahariane. A dieci anni dai primi finanziamenti, il progetto ha già invertito la tendenza all'impoverimento del suolo

Pubblicato quasi 7 anni faEdizione del 1 febbraio 2018

Il villaggio di Widou Thiengoly si trova nel nord ovest del Senegal, proprio sulla linea di confine con il Sahara. Qui, dove vivono molti pastori e allevatori nomadi, l’avanzamento del deserto non è legato solo ai cambiamenti climatici, ma anche al sovrapascolamento, e alla pressione delle mandrie sui terreni.

Gli anziani ricordano ancora quando, decenni fa, il colore del paesaggio non era il rosso della sabbia, ma il verde degli alberi, tanti da non permettere loro di vedere il cielo. Forse, però, un giorno questa immagine smetterà di essere un ricordo, e sarà una fotografia della realtà, grazie alla Great Green Wall (grande muraglia verde), il progetto che prevede la creazione di una barriera di alberi e vegetazione per arginare il deserto. E Widou Thiengoly si trova sul tracciato della barriera.

L’inaridimento dei terreni interessa il 40% della superficie africana; l’Onu afferma che due terzi delle terre coltivabili del continente sono a rischio desertificazione entro il 2025. Ogni anno il deserto avanza di 2 km, generando una perdita annuale di circa 2 milioni di ettari di zone verdi. Le cause sono tante: l’aumento della temperatura, pratiche agricole sbagliate, il taglio degli alberi, l’impoverimento dei pascoli per lo sfruttamento degli allevatori.

Le conseguenze della desertificazione coinvolgono circa 500 milioni di persone e consistono, tra le altre cose, in frequenti tempeste di sabbia e diminuzione delle piogge; fenomeni che contribuiscono all’erosione dei terreni.

Negli ultimi due anni l’Etiopia ha conosciuto la peggiore siccità da decenni, mentre la stagione delle piogge nel 2017 in Senegal e Mauritania è stata così carente che la produzione agricola in alcune regioni si è dimezzata. La percentuale di popolazione indigente, invece, è aumentata, passando da un terzo a metà.

L’idea di creare un «muro verde» contro il deserto arriva da lontano, dallo scienziato ambientalista britannico Richard St Barbe Baker che lo ipotizzò nel 1952, ed è stata rilanciata nel 2005 dall’ex presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, che ha proposto la creazione di questa barriera di oltre 8mila km, larga 15, che colleghi la costa atlantica africana a quella sull’Oceano Indiano, per impedire alla linea del deserto di spostarsi sempre più in basso.

La Great Green Wall coinvolge direttamente 11 nazioni subsahariane: Nigeria, Senegal, Niger, Mali, Burkina Faso, Mauritania, Chad, Sudan Gibuti, Eritrea ed Etiopia; a questi si aggiungono altri 9 paesi partner africani. È finanziata e sostenuta dalla Banca Mondiale e dalle Nazioni Unite; ha ottenuto l’appoggio dell’Unione Africana nel 2007 e ha incassato finanziamenti anche dalla COP21, la conferenza sul clima che si è tenuta a Parigi nel 2015.

Il progetto di creare un «muro di alberi» si è scontrato però presto con delle difficoltà evidenti: far crescere alberi nel deserto non è semplice, senza contare che, per lunghi tratti, la barriera passava per regioni inabitate, dove nessuno si sarebbe preso cura delle piante. In alcune regioni, poi, i frequenti scontri armati impediscono di attivare qualsiasi politica a sostegno della popolazione locale.

Lentamente la realtà ha costretto a riformulare l’idea iniziale: non più una barriera verde, ma una costellazione di piccoli progetti legati alle comunità che vivono in queste aree. L’obiettivo è sempre quello di contrastare l’avanzata del deserto e rinverdire l’area, ma viene perseguito sostenendo l’agricoltura, e, di conseguenza, combattendo la povertà e l’insicurezza alimentare. Sono ormai passati 10 anni dallo stanziamento dei primi fondi, e si cominciano a vedere i primi risultati. Il Senegal è il paese più attivo degli 11 in prima linea: ha già piantato quasi 12 milioni di alberi, su una superficie di 40mila ettari, creando anche un’agenzia nazionale dedicata, recuperando 25mila ettari di terreni aridi.

Il Sudan ne ha recuperati altri 2mila. L’Etiopia addirittura 15 milioni di ettari, la Nigeria 5 milioni, oltre ad aver creato 20mila posti di lavoro. Più lenti e limitati i successi in Burkina Faso, Mali e Niger, dove si registrano in tutto 120 comunità coinvolte, che hanno creato una «cintura verde» di piante di 50 diverse specie di alberi, per un totale di 2.500 ettari di terreni inariditi che stanno tornando alla vita. Anche se 5 su 12 dei paesi coinvolti non hanno risultati da esibire, i progetti legati alla «muraglia verde» hanno già iniziato a invertire la tendenza all’impoverimento del suolo. Un grande alleato è l’acacia, le cui fronde ampie concedono molta ombra, e le cui radici trattengono più acqua rispetto ad altri alberi, contribuendo in modo decisivo all’umidità del terreno; ma a fare la differenza è stato anche il recupero di piante e coltivazioni autoctone, e l’adozione di tecniche agricole adeguate.

Fermare il deserto sostenendo le comunità locali non è stato solo un approccio più realistico nell’affrontare il problema, che va combattuto coinvolgendo la popolazione (garantendo quindi benefici concreti in breve tempo), e tenendo conto della forte instabilità politica della regione. Se la Great Green Wall è ormai un muro solo metaforico, è anche perché la ricerca di fondi ha dovuto adattarsi agli interessi dei paesi donatori, a partire dall’Unione Europea. Che per il muro verde ha sganciato spiccioli, ma per fermare i migranti climatici ha già sborsato 7 milioni di euro, e ha promesso altri fondi.

Dove non arriva lo spirito ambientalista, arriva infatti la paura degli immigrati: le previsioni dicono che entro il 2020, in Europa e Nord America arriveranno 60 milioni di migranti climatici dall’Africa subsahariana, e negli anni seguenti il numero non farà che crescere. Molte delle comunità senegalesi che sorgono a ridosso del Sahara sono chiamate «villaggi senza uomini», perché ormai abitati solo da donne. Dove sono arrivati i finanziamenti della Great Green Wall, quelle donne oggi stanno coltivando melanzane, peperoni, mandarini, arance, angurie, mango, lattuga. Gestiscono gli orti a turno, e tutta la comunità ne trae vantaggio, in termini alimentari ma anche economici: la vendita dei prodotti agricoli viene usata per comprare nuove sementi, o investita in galline. Che, in un vicino futuro, i giovani decidano di restare, lo sperano tanto le madri e mogli di questi «villaggi senza uomini», quanto Banca Mondiale, UE e i grandi finanziatori internazionali, che sull’«aiutiamoli a casa loro» hanno plasmato la loro solidarietà. Nel frattempo, però, la barriera sta davvero fermando il deserto. E rinverdendo i terreni. E riportando l’acqua. Lo dicono i geografi che stanno monitorando il Sahara e il Sahel, lo confermano le fotografie scattate dai radar. In 10 anni è stato piantato solo il 15% degli alberi previsti dal progetto iniziale, ma quel poco che è stato fatto sta funzionando.

Che questo ambizioso progetto si realizzi è cruciale non solo per l’ambiente e per l’Africa: la Great Green Wall è un simbolo di speranza, e, ad oggi, è la prima vera dimostrazione che gli effetti del cambiamento climatico si possono invertire.

ABBONAMENTI

Passa dalla parte del torto.

Sostieni l’informazione libera e senza padroni.
Leggi senza limiti il manifesto su sito e app in anteprima dalla mezzanotte. E tutti i servizi della membership sono inclusi.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento