La morte corre nel campo della salute mentale
Illustrazione di Pedro Scassa
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La morte corre nel campo della salute mentale

L’uccisione di Barbara Capovani è il risultato di una disumanizzazione del suo omicida. Un atto premeditato, calcolato e insieme anonimo, (desoggettivato e desoggettivante)
Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 aprile 2023

Barbara Capovani, psichiatra all’ospedale di Pisa, è stata ferocemente uccisa da un suo paziente. Valutare l’omicidio secondo giustizia significa anche che nessun grave disagio psichico che può aiutare a comprenderlo, può anche giustificarlo. L’assassino va sanzionato con rigore e equilibrio. La cura del disagio non può prescindere dalla sanzione, per il fatto che non possiamo prendere cura di qualcuno senza stabilire un limite alla sua azione distruttiva. E per il fatto che senza questo limite il soggetto oggetto della cura non può usufruirne.

La cura non può prescindere dalla possibilità di riconoscere nella gravità dell’atto compiuto, la propria umanità perduta. Perché l’uccisione di Barbara Capovani è il risultato di una disumanizzazione del suo omicida. Un atto premeditato, calcolato e insieme anonimo, (desoggettivato e desoggettivante), non un’azione preterintenzionale causata da un un’interpretazione errata della realtà sotto la pressione contingente di una tensione emotiva e mentale soverchiante.

La Società della Psichiatria Italiana e i sindacati di categoria hanno messo l’accento sulla mancanza di condizioni di sicurezza accettabili nel lavoro degli psichiatri e sul de-finanziamento della Salute Mentale, che non è stata neppure menzionata dal ministro Schillaci nel suo discorso in parlamento. Sono fatti incontestabili. Tuttavia la riduzione del problema alla sola mancanza di finanziamenti e di sicurezza è controproducente.

Senza un finanziamento adeguato il sistema della salute mentale crollerà miseramente. E lavorare in condizioni di precarietà e a rischio della propria vita (oltre che del proprio equilibrio emotivo) sta diventando una missione impossibile, sacrificale. Nondimeno bisogna pur chiedersi a che cosa le risorse reclamate a gran voce servirebbero e come si costruisce la sicurezza nel lavoro di cura psichica. Domandarsi da dove viene la violenza impersonale che invade la società in forma sempre più disumanizzante e difficile da significare.

Alla psichiatria e a tutte le forze che operano nella salute mentale viene chiesto di farsi carico di una violenza mortifera che si espande nella nostra vita in assenza di argini socioculturali, che avrebbe dovuto mettere la Polis. A una violenza che prospera nella mancanza di tempo libero e di vere relazioni di scambio tra di noi. Viene chiesto di contrastare una sofferenza informe, pervasiva che entra nella nostra vita in silenzio, come espressione di dolore sordo che nasce dal progressivo svuotamento della nostra esistenza affidata a un mondo di relazioni virtuali. Queste relazioni distruggono i nostri spazi conviviali, l’incontro dei nostri sguardi, dei nostri battiti del cuore, dei nostri respiri, dei nostri sensi, dell’odore, del tatto e del gusto delle nostre emozioni.

Barbara, psichiatra caduta nell’esercizio di un dovere etico, di una passione per cura (non si diventa psichiatri distrattamente), è stata uccisa da un essere umano che ha perduto il suo posto nel mondo diventando un automa. Ma la mano assassina l’ha armata una società che questi automi li crea. Quali condizioni di sicurezza si possono creare senza disattivare la matrice che costantemente genera meccanismi impersonali di comunicazione?

Se davvero dei colpevoli è necessario indicare, allora bisogna avere il coraggio di dire che l’uso perverso della digitalizzazione, la sua distorsione pazza in un sostituto anestetizzante, consolatorio dell’esperienza, e la medicalizzazione ossessiva, insistente di ogni forma di cura, non porta la serenità e la pace che falsamente promettono, ma la distruzione e la rovina delle nostre relazioni e della nostra vita.

La cura intesa come terapia medica, il farmaco come rimedio di ogni malessere e di ogni infelicità, è un’idea fanatica, pericolosa, anche nel campo della medicina. Prendere cura significa avere rispetto di ciò che amiamo, di ciò che dà alla nostra vita senso e ci emoziona, accogliere ogni sua declinazione e ogni suo aspetto, comodo e scomodo che esso sia, favorire la sua espressione e la sua crescita nel nostro mondo interno e nel mondo esterno. Nel campo della salute mentale la morte della cura corre, bisogna fermarla in tempo.

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