«La missione è la sola testimone sul campo, con un mandato ambiguo»
Intervista Parla l'analista Lorenzo Trombetta
Intervista Parla l'analista Lorenzo Trombetta
Del doppio attacco armato israeliano a postazioni Unifil abbiamo parlato con l’analista Lorenzo Trombetta.
Qual è l’obiettivo di Israele?
Saggiare il terreno: non solo la capacità difensiva di Hezbollah, ma anche le intenzioni di Unifil. A Israele farebbe più comodo avere un territorio privo di ostacoli: Unifil può testimoniare quello che succede sul campo. Non a caso, in entrambi gli episodi, ha sparato sulle torrette di osservazione, sugli occhi di Unifil, e ha disattivato sia i sistemi di comunicazione nelle due basi italiane nelle postazioni 131 e 132 Alfa sia il sistema elettrico della 132 Alfa. Probabilmente Unifil rimarrà trincerata nelle sue basi in attesa che la tempesta svanisca: andarsene significherebbe smantellare l’intera missione, dal punto di vista logistico un’operazione complicata, e significherebbe perdere credibilità. È anche vero, scrive Reuters, che Unifil dovrebbe spostare 300 dei suoi caschi blu dalle basi più piccole e remote verso le basi più grandi: rimane riducendo la dispersione sul territorio.
Tali violazioni del diritto internazionale possono avere conseguenze diplomatiche per Israele? Viene violato da un anno, ma solo adesso gli alleati parlano di crimini di guerra.
Non ci saranno conseguenze per Israele, protetto e sostenuto dagli Stati uniti e dai loro alleati. Israele è una testa di ponte tra Mediterraneo e Oceano indiano, insieme all’Arabia saudita, l’Egitto, la Giordania, gli Emirati, secondo la vecchia visione del colonialismo. Per gli Stati uniti Israele è un pilastro della loro presenza nella regione e questo ha ricadute su tutti i paesi alleati di Washington. Possono alzare la voce ma non interverranno.
Che senso ha oggi quella missione, a fronte di un’invasione di terra conclamata seppur limitata e una campagna di bombardamenti così intensa?
Il mandato di Unifil non è mai stato quello di disarmare Hezbollah. Opera nell’ambito del capitolo sesto della Carta delle Nazioni unite che non prevede l’uso della forza. Cosa deve fare? Deve sostenere l’esercito libanese ed è qui che nasce la sua ambiguità. Unifil viene incaricata dalla risoluzione Onu 1701 del 2006 con un mandato chiaro sulla carta ma politicamente ambiguo perché l’esercito libanese non è un esercito come lo immaginiamo in Europa, così come lo Stato libanese non è uno Stato «normale»: nasce e si consolida con una chiara impronta coloniale, cliente prima dei francesi e poi, nel secondo dopoguerra, degli Stati uniti. L’idea era avere uno Stato debole che non creasse problemi a Israele. Era ed è ancora un principio strategico degli Stati uniti e di Israele che dal ’78, in piena guerra civile libanese, entra e comincia a creare una fascia di sicurezza.
Lo Stato libanese e il suo esercito sono stati sempre volutamente indeboliti, nonostante i finanziamenti esterni: non hanno l’aviazione, non hanno una marina degna di questo nome…Hezbollah nasce con il sostegno e per volere dell’Iran per infilarsi e occupare questo spazio politico e geografico: nel 2000, quando Israele si ritira, quello spazio non è occupato dall’esercito libanese, ma da Hezbollah. In questo contesto la 1701 dava a Unifil l’incarico di sostenere una struttura che in realtà, per volontà sia dell’Occidente sia di Hezbollah, è debolissima. Unifil non può fare altro che il vigile urbano, stare a guardare e segnare le violazioni dell’una e dell’altra parte. Li chiamano peacekeeper ma, nel momento in cui gli altri decidono di farsi la guerra, si chiudono nelle loro basi perché non possono fare altro. Quella missione ha senso per tenere i paesi che ne sono parte dentro il tavolo negoziale del futuro.
Le pratiche israeliane in Libano ricalcano quelle contro Gaza, rivendicate dallo stesso Netanyahu. Che effetti hanno sulla popolazione e sulle varie forze politiche? Si assiste a un compattamento interno o all’ampliamento delle fratture settarie e politiche?
Si assiste a un compattamento interno, almeno sul breve periodo. Gran parte della popolazione è solidale con gli sfollati e con chi paga il prezzo più alto della guerra. Nel medio e lungo periodo aumenteranno le fratture comunitarie e politiche, due piani che si sovrappongono. Un numero così alto di sfollati creerà tensione sociale in un contesto già di per sé precario. A ciò si aggiungono le manovre di forze politiche, alleate o meno di Hezbollah, che si stanno riposizionando nell’idea che la scomparsa di Nasrallah possa aprire nuovi spazi di accordo con il fronte filo-occidentale e filo-israeliano. Hezbollah venderà cara la pelle, non rimarrà fermo ad aspettare la sconfitta e questo può aprire scenari molto inquietanti di scontri interni, anche armati. Per questo tutti si muovono con molta cautela: il timore è che possa saltare tutto e se salta tutto salta anche la torta che si spartiscono da decenni. La guerra civile non favorirebbe chi il potere lo possiede già.
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