La minoranza Pd condannata all’irrilevanza
Democratici Che senso ha stare in un partito nel quale si è mal sopportati? Come paventare la deriva del partito della nazione quando non è deriva ma cosa fatta? O invocare un congresso sostituito da primarie per la leadership?
Democratici Che senso ha stare in un partito nel quale si è mal sopportati? Come paventare la deriva del partito della nazione quando non è deriva ma cosa fatta? O invocare un congresso sostituito da primarie per la leadership?
Mi seccherebbe essere frainteso: vi sono ragioni in abbondanza, etiche ed estetiche, prima che politiche, per reagire al manifesto approdo dei verdiniani alla maggioranza di governo e alle migrazioni di massa di iscritti verso il Pd su base opportunistica/trasformistica, di cui il caso dei cuffariani in Sicilia è solo la punta dell’iceberg. E tuttavia trovo stucchevole e patetico l’ennesimo penultimatum della sinistra interna, con l’annessa invocazione di anticipare il congresso. Richiesta cui, peraltro, i vertici Pd hanno risposto picche, con espressioni arroganti e irridenti. Che denotano protervia, ma che un po’ si spiegano con la palese convinzione che ce lo si possa permettere, che la minoranza Pd non conti nulla.
Nell’ordine: che senso ha stare in un partito nel quale si è ininfluenti e, per di più, mal sopportati? Come rifiutarsi all’evidenza, paventando la “deriva” del Pd quale “partito della nazione”, che non è deriva ma cosa fatta? A che pro invocare un congresso che lo statuto del Pd neppure contempla, sostituito da primarie per la leadership? Davvero si immagina contendibile la leadership prospettando candidature chiaramente non competitive o addirittura di comodo e compiacenti come quella del presidente della Toscana, che reitera la brutta abitudine di agitarsi in vista di altro non appena acquisito un secondo mandato che lo dovrebbe già impegnare abbastanza? Infine, basta scorrere il calendario, per concludere circa la non contendibilità della leadership Pd: come si può pensare che si possa plausibilmente sfidare il segretario che è altresì premier del governo che si è sostenuto e si sostiene a pochi mesi o, al più, a un anno dalle elezioni politiche a seguire?
Tutti interrogativi che mi confermano nella tesi che, un po’ in solitudine, sostengo da tempo. Quella di una separazione consensuale, senza strepiti, tra centro renziano e sinistra riformista che oggi convivono da separati in casa dentro il Pd. Si è già in ritardo. Il tempo non è variabile indifferente.
Penso a tanti militanti ed elettori di sinistra che già hanno lasciato il Pd da sinistra. Penso a stimati colleghi parlamentari approdati a Sinistra Italiana, ma che non si rassegnano a una deriva minoritaria e testimoniale. Penso all’esigenza di disporre di un tempo sufficiente a strutturare un soggetto politico che plausibilmente miri a un consenso a due cifre, in modo da costringere Renzi, sensibile solo ai rapporti di forza, a correggere l’Italicum reintroducendo il premio di coalizione, così da non escludere – se ve ne saranno le condizioni politiche e programmatiche – un’alleanza di centro-sinistra con il trattino, realizzata intorno a una piattaforma negoziata e dunque qualificata in senso democratico e riformatore.
Mi chiedo perché non si prenda sul serio tale prospettiva. Perché ci si condanni all’irrilevanza e persino all’umiliazione. Forse per il retaggio antico del mito del partito e della sua unità, di marca comunista. Forse per qualche residuo strapuntino nel governo, nel partito, nella (improbabile) quota spettante alla minoranza in sede di candidature. Forse, ancora, perché ci si considera – ancora per quanto? – terminali politici di una rete di interessi economici e sociali (si pensi alle ex regioni rosse) che non lascerebbero il certo del rapporto con il “partito unico di governo” (centrale e locale) per l’incerto di una iniziativa politica nuova e dall’esito incerto. Francamente non so.
Quel che so è che, nella recente partita sulle unioni civili, la minoranza Pd è riuscita di nuovo incassare una doppia sconfitta, sul merito e sul metodo. Costretta infine a votare la fiducia su un testo negoziato con Ndc.
A monte, di nuovo, avendo commesso due errori.
Primo: con quale coerenza, la minoranza Pd, che tanto e giustamente protestò contro il canguro con il quale si esautorò il parlamento nel varo della riforma costituzionale, lo ha poi invocato sul ddl Cirinnà, associandosi alla polemica con i 5 stelle che, non a torto, si sono rifiutati a un vulnus alla democrazia parlamentare?
Secondo: come si può teorizzare la ripresa del progetto dell’Ulivo, concepito sull’asse laici-cattolici, e sposare tesi divisive sul tema delle unioni, anziché patrocinare una mediazione alta (vi erano emendamenti utili a tal fine, tipo quello Chiti-Corsini-Pagliari), rilasciando l’iniziativa e il merito tutto a Renzi? Davvero si pensa a un’alternativa a Renzi, interna o esterna al Pd, che programmaticamente rinunci a un rapporto con i cattolici democratici e sociali, in un ridotto da sinistra ex Pci attestata su posizioni laiciste?
Una battaglia maiuscola, da parte della minoranza Pd, avrebbe dovuto metterne al centro il profilo plurale, il metodo sbrigativo con il quale si prendono le decisioni in un partito personale e la gestione ondivaga e dilettantesca della questione (per lunghi mesi si è accreditata una posizione sulle unioni assunta da Renzi, senza un deliberato di partito; e, nel passaggio parlamentare, lo scarto dalla retorica della sovranità del parlamento con tanto di libertà di coscienza per i senatori Pd al voto di fiducia sul governo!), non attestarsi sul “Cirinnà o morte”, votandosi alla sconfitta su tutta la linea. Nel mentre, per inciso, la Cirinnà si proclamava felice e grata a Renzi.
Senza una visione, senza una bussola, senza un quadro di alleanze sociali, culturali e politiche, senza leadership plausibili ancorché da costruire, gli elettori di sinistra sono condannati all’alternativa tra il centrismo moderato di Renzi, il minoritarismo testimoniale e l’abbandono. Un sentimento che misuro anche su di me.
* L’autore è deputato del Partito democratico
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