«Non chiamatemi suicida, aborro il termine suicidio assistito, chiamatelo eutanasia, la buona morte». L’architetta Martina Oppelli, 49 anni di Trieste, «tetraplegica dal 2012» e «da un quarto di secolo affetta da sclerosi multipla, una patologia neurodegenerativa devastante», racconta in un video diffuso dall’associazione Coscioni perché dall’estate scorsa chiede di essere aiutata da un medico a morire, ricevendo però il diniego da parte dell’azienda sanitaria della Regione Friuli Venezia Giulia presieduta dal leghista Massimiliano Fedriga. Martina Oppelli si rivolge ai membri del Senato, perché è lì che si è impantanato nelle commissioni Giustizia e Affari sociali l’esame del ddl sulla depenalizzazione parziale del suicidio medicalmente assistito, e chiede loro di discutere una buona legge sul fine vita tenendo presente «ogni aspetto e ogni dolore» della persona che chiede di morire.

«AMO LA VITA. Sono però esausta, sono arrivata ad un punto in cui il dolore è devastante – spiega – io ormai muovo solo la testa, riesco ancora a lavorare tramite i comandi vocali, ma la fatica è tanta e non ce la faccio più. La mia non è una scelta di disperazione, ma una scelta d’amore verso la vita che ho avuto». Dall’Asugi, l’azienda sanitaria regionale, ha ricevuto un no secco alla sua richiesta perché «secondo loro non rispondo a uno dei quattro requisiti indispensabili» dettati dalla sentenza Cappato/Antoniani 242 del 2019, «ovvero essere mantenuta in vita da trattamenti vitali. Ma secondo voi io come mangio, come bevo, come mi lavo, come vado in bagno, come assumo i farmaci? Senza qualcuno che mi assiste ventiquattr’ore su ventiquattro, io non sopravvivo».

Dopo il diniego e dopo che, lo scorso gennaio, il tribunale di Firenze ha chiesto alla Corte costituzionale di rivedere proprio quel requisito del sostegno vitale, l’architetta tetraplegica ha chiesto alla Regione una rivalutazione del suo caso. Ma per l’Asugi «non sussistono i presupposti per la rivalutazione delle condizioni di salute della signora Oppelli e non sussiste alcun obbligo dell’amministrazione di provvedere in merito alla richiesta di revisione del precedente parere». Perché, secondo la Regione, la terapia farmacologica – con la quale, in ogni caso, non riesce a controllare totalmente i dolori e gli spasmi diffusi – e l’assistenza h24 di terze persone, senza le quali la donna sarebbe già morta, non sono un «sostegno vitale». Gli altri tre requisiti – patologia irreversibile, sofferenze intollerabili e capacità cognitive – sono invece accertati.

IL CASO È ORA NELLE MANI del Tribunale di Trieste, in attesa del 19 giugno quando la Consulta si esprimerà su quel requisito che «non è presente in alcuna legislazione al mondo», come sottolinea la segretaria nazionale dell’associazione Coscioni, l’avvocata Filomena Gallo, coordinatrice del collegio legale di Martina Oppelli. Per Gallo, «il diniego dell’Asugi è illegittimo e privo di fondamento», anche perché «la stessa azienda sanitaria aveva riconosciuto l’assistenza continua alla persona come trattamento di sostegno vitale nel caso di “Anna”, che infatti fu la prima persona a ottenere l’aiuto alla morte volontaria in Italia con l’assistenza completa del Servizio sanitario nazionale, proprio in questa Regione». Quel caso, molto simile a quello attuale, risale al novembre scorso e “Anna”, nome di fantasia per una donna di 55 anni affetta da sclerosi multipla secondaria progressiva, morì infine nella sua casa di Trieste con farmaco letale e strumentazione forniti dal Ssn, e con l’aiuto di un medico individuato dall’Als, su base volontaria.

«Ammetto di aver anche fatto domande all’estero, proprio perché non ce la faccio più – conclude Martina Oppelli – ma i mezzi economici e soprattutto la fatica fisica per arrivarci sarebbe tanta. Vorrei morire col sorriso sul viso nel Paese dove ho scelto di vivere e dove ho pagato le tasse».