In un Ruanda flagellato già in epoca coloniale dall’imposizione forzata di un culto cattolico del tutto estraneo alle tradizioni e credenze autoctone e dai successivi conflitti inter-etnici sfociati in un cruento genocidio, Scholastique Mukasonga, candidata nel 2023 al Premio Nobel, torna a indagare le origini storiche dell’attuale condizione sociopolitica del suo paese e continente con Sister Deborah (Utopia, pp. 160, euro 18, traduzione di Giuseppe Allegri), suo romanzo forse più visionario e per certo più femminista, dopo i precedenti Nostra Signora del Nilo e Kibogo è salito in cielo, arrivati in Italia nel giro di pochi anni, sempre grazie alla casa editrice Utopia.

SIAMO NEGLI ANNI ’30 del Novecento: mentre un vasto movimento di conversione al cristianesimo investe l’Africa orientale e missionari cattolici invocano la discesa dello Spirito Santo perché possa annientare il paganesimo indigeno (mescolandosi però ben presto in una miscela esplosiva di fede battista apocalittica, riti di possessione vudù e stregoneria animista africana), in Ruanda una suora dai poteri taumaturgici fonda una missione evangelica insieme al Reverendo Marcus, pastore afroamericano giunto dagli Stati Uniti, e profetizza il messaggio che gli spiriti d’America e d’Africa l’hanno incaricata di trasmettere.
Sarà proprio in questa nuova Gerusalemme nera, un paese purissimo che non aveva mai conosciuto la schiavitù e aveva conservato la razza nera così come il creatore l’aveva plasmata nella creta originale, che Madre Africa stabilirà il suo regno e sarà una repubblica «di donne, per le donne, amministrato da una donna». Non solo infatti l’atteso Messia sarà nero, ma addirittura femmina.

TANTI E TALI sono i racconti che iniziano a circolare sui miracoli e sui prodigi operati dalle mani e dalla canna della misteriosa guaritrice americana – posseduta non si sa bene se da angeli o demoni – che attorno a lei si organizza una schiera sempre più nutrita di adepte e fedelissime.

NONCURANTI DELLE MINACCE dei mariti, le donne abbandonano le zappe, disertano i campi, trascurano la prole e si riuniscono in assemblea per discutere della forma e del colore delle nuvole, convinte che la profetessa scesa dal cielo solo per guarire e consolare le donne e i bambini avrebbe portato con sé una semente meravigliosa che avrebbe sfamato tutti e tutte a sazietà, e protetto le battezzate dell’iriba dalle possibili catastrofi. La disobbedienza degenera però in insurrezione e i disordini vengono repressi dalle truppe coloniali. Sister Deborah sparisce e le contastorie ne costruiscono una verità leggendaria quando contraddittoria, che la vuole morta, miracolosamente salva e in fuga, o addirittura risorta.
A un’altra donna spetta l’arduo compito di ricostruire la storia straordinaria di Deborah. Ikirezi, la ragazzina malaticcia di Nyabikenke salvata in tenera età da morte certa dalla stessa predicatrice, dopo essere stata ammessa al liceo più rinomato, a Kigali – fatto all’epoca eccezionale per una ragazza – e aver ottenuto una borsa di studio per il Belgio, diviene eminente ricercatrice africanista ad Howard, la Harvard Nera.
Con una tesi su Sette cristiane e stregoneria in Africa, solo questa giovane donna riuscirà forse a ritessere le trame interrotte di una narrazione frammentaria e immaginifica, sospesa tra realtà storica, credo religioso e sentimento popolare, infarcita di repressione cruenta e speranza mai spenta sotto le ceneri, in una commistione di reale e sovrannaturale, volta a sanare le lacerazioni e colmare le cesure del colonialismo in ottica femminista, addossandosi metaforicamente, come spesso le donne africane fanno, l’impresa titanica della ricostruzione della nazione e la cura dei suoi traumi.