Capita spesso che un film, a dispetto della propria natura visuale, si regga tutto su forze invisibili, latenti, su correnti d’aria che percorrono in lungo e in largo gli interstizi tra una scena e l’altra, tra un luogo e l’altro, predisponendo l’incarnazione e la fuga delle immagini – una libertà del segno cinematografico che si definisce al di là del disegno, al di là della sceneggiatura –, la fuga dalle immagini, per divenire altro, come si dice, un epifenomeno, magari un epifonema, un suono inconsulto: un film che è divenuto altro da sé, altro da quello che sarebbe dovuto essere. E quando accade, di solito ci si trova di fronte a un film notevole, magari difettoso, con qualche falla nello scafo, eppure vivo, libero nella sua deriva. La lunga corsa di Andrea Magnani, in concorso al Torino Film Festival, innesca questo stesso dispositivo aereo, virtuale, cioè la dialettica tra forze che innerva il film, lo fa procedere a forza di incagli e slanci, tentativi di involarsi al di là della cornice dell’immagine. Si tratta dell’inerzia che si crea tra l’istinto a ritrarsi, a escludersi dal mondo, a restare al riparo del nido – in questo caso la prigione in cui Giacinto è nato e cresciuto – e l’attitudine al moto, ad andare verso, dentro il mondo, a fuggire al di là delle stretture, contenzioni, dell’imprimitura di cornici.

IL FATTO è che questa eccezionale inerzia anziché librarsi nel concatenamento di immagini frementi, trepidanti, stagna nel cerchio, nella prigione appunto di immagini ferme, stereotipate come in un film di Wes Anderson. Entusiasmante, autentica, la forza motrice del film, meno la forma che il film assume, che si sforza di assumere, tra forzature di scrittura, irrigidimento, cartonamento delle sagome (tanto che ci si chiede se l’ambizione ultima del regista non sia il film d’animazione, il cartone animato): è il passaggio dalle forze in azione agli sforzi che portano all’inazione. Certo, era l’intento del regista: la costruzione di una favola andersoniana, non anderseniana; postmoderna, rarefatta e stilizzata all’estremo – lo sono tutti i personaggi, tra cui una direttrice orba che cambia ogni volta la benda all’occhio, una splendida Bobulova; personaggi per lo più irretiti nell’automatismo dello schizzo, dello sketch; e gli oggetti, zaini-orsacchiotti, tablet-giocattolo; i mezzi di locomozione: furgoni, auto, pullman vezzosamente squadrati –, ma il risultato è una certa stanchezza, aridità della messa in scena; dei personaggi, nella loro carne di carta, una specie di scetticismo di loro stessi nel considerarsi autentici, vivi, credibili ai fini dell’apologo. Eppure, a sorpresa, spunta una sequenza finale (addirittura documentale) sui titoli di coda, in cui viene ripreso con una certa neutralità l’esterno di carceri, case circondariali (reali), ecc., con la loro prassi di cancelli scorrevoli, cortili, finestre serrate, e una luce mattutina, slavata sulle superfici, che dischiude il segreto recondito di questi luoghi di reclusione: la tensione inesausta esistente tra l’esclusione dal mondo, dentro, al riparo, e la reazione, l’estroflessione, fuori.