Sirine Charaabi durante la finale dei Mondiali a New Delhi

Sirine «Siri» Charaabi, 23 anni, è un turbine di energia. Da quando ne ha 14 è nella nazionale italiana di boxe femminile. Fiamme Oro Polizia di Stato, tanti traguardi: un mese fa ha conquistato l’Argento ai Mondiali di New Delhi. Sirine è nata a El Fahs, Tunisia. Quando lei e sua sorella avevano 18 mesi, con la madre hanno raggiunto il padre in Italia. Cresciuta a San Prisco, Caserta, si è formata alla Tifata boxe, dove il maestro Giuseppe Pellegrino allena campioni dal ’77. Non subito ha potuto rappresentare l’Italia all’estero. La cittadinanza è arrivata nel 2021, subito dopo la sua vittoria ai campionati nazionali. La storia di Sirine è simile a quelle di tanti atleti di «seconda generazione» che questo paese stenta a riconoscere come figli suoi. Sirine ce l’ha fatta. Altri aspettano, come Khadija «Katalina» Jaafari, 16 anni, marocchina di Torre Annunziata, talento della fucina della Boxe Vesuviana di Lucio Zurlo, maestro di Irma Testa: tre volte campionessa italiana di boxe femminile, non può gareggiare all’estero. Dopo i Mondiali, abbiamo raggiunto al telefono Sirine per una chiacchierata. Voce squillante, marcato accento casertano, un piglio delicato ma sicuro: audace.

Com’è cominciato tutto?

Entrai in palestra a 5 anni per emulare mio cugino: non sono uscita più. Io e mia sorella gemella abbiamo iniziato insieme, ma lei non aveva la giusta «cazzimma». Il Maestro Giuseppe Perugino è stato una guida per me, mi ha cresciuta. Il pugilato è come se ce l’avessi dentro, faceva parte della mia indole. Ricordo che per ogni colpo ricevuto ne volevo dare mille.

Nata in Tunisia, cresciuta in provincia di Caserta: come ti definisci?

Mi definisco un’italiana di seconda generazione. Non rinnego le mie origini, ne sono fiera, come lo sono di essere casertana. Penso che i figli non sono di chi li fa, ma di chi li cresce. Se mi chiedi per me dove sta casa, ti rispondo San Prisco.

Eppure è stato difficile avere un pezzo di carta che certificasse questa tua appartenenza.

Ho iniziato a gareggiare presto. A 13 anni arrivò il primo titolo italiano giovanile. Gli allenatori mi notarono, volevano portarmi alle competizioni internazionali. Cominciarono i problemi: non avevo il passaporto. Mio padre vive in Italia da più di 30 anni ma non aveva mai chiesto la cittadinanza. Ha cercato di recuperare, ero ancora minorenne. Passò molto tempo prima dell’esito. Purtroppo proprio l’anno in cui aveva fatto richiesta aveva perso il lavoro: il reddito non era coperto, la cittadinanza fu rifiutata. In quel momento ho visto nero. Ho aspettato i 18 anni. Compio gli anni il 7 maggio. L’8 andai a consegnare i documenti: iniziò la lunga attesa. Nel frattempo, dopo il diploma, presi un anno sabbatico. Volevo dedicarmi completamente alla boxe, vincere i campionati italiani. Era il 2018. Arrivai in finale ma persi nella seconda ripresa. Quello è stato il mio vero ko. Fu allora che decisi di abbandonare.

Poi cos’è successo?

Sono sempre stata dell’idea che si deve avere un piano b, non sarei mai rimasta con le mani in mano. Ho iniziato a fare la cameriera, mi sono iscritta all’università, Scienze Politiche. Non voglio essere il tipo di atleta senza cultura che non sa dire una parola: ci tengo molto. Lavoravo, studiavo; mi allenavo pochissimo. Il maestro Perugino non ha mai smesso di chiamarmi: «quando vuoi, per te la palestra è sempre aperta». Il covid mi ha «salvata». Durante il lockdown solo gli atleti di interesse nazionale potevano andare ad allenarsi: pian piano ho ripreso forma, il maestro decise di iscrivermi ai campionati italiani. Ci andai senza aspettative. A volte, quando ci penso, mi dico: forse prima sbagliavo l’approccio. Quando desideri troppo qualcosa, inizi a strafare. Ci sono andata senza aspettative e ho vinto. Dopo una settimana, arrivò la chiamata dalla Prefettura per la notifica di accettazione della cittadinanza.

Cosa hai pensato?

Non ci potevo credere. Come se prima non valessi, e invece ero la stessa persona. Ho perso tempo. Troppo.

Quali sono i momenti più spettacolari del pugilato? Che rapporto hai con l’avversaria?

Con Irma Testa ci conosciamo da quando siamo piccole: per esempio, quando lei fa i guanti in palestra è uno spettacolo. La bellezza dei colpi, la pulizia dei movimenti, è affascinante. Ci sono pugili che fanno la schivata, come quando un calciatore fa tantissimi dribbling. Prima di un match le due sfidanti si guardano male, ma è per dare «hype» all’incontro. Entra in gioco l’aspetto umano, c’è molto rispetto prima e dopo il match. Se c’è una scorrettezza, si chiede subito scusa. Dopo aver fatto a pugni ci si fa i complimenti. Non considero la mia avversaria come un nemico, sul ring ci si parla.

Cosa insegna la boxe? Quanto è importante – e difficile – restare lucidi quando le aspettative sono così alte?

Questo sport mi ha formata moltissimo. Mi fa essere orgogliosa pensare che altre ragazze possano prendermi come esempio di perseveranza. Chi non sa, vede solo l’atleta sul ring. Dietro c’è un lavoro di squadra, tante persone che credono in te. L’aspetto mentale conta molto. All’inizio non mi sentivo all’altezza, l’ansia mi bloccava. Ne ho preso consapevolezza, ho iniziato un percorso con la psicologa che mi ha fatto superare la paura di fallire. Al di là dell’Argento ai Mondiali, tanti non capiscono quanta sofferenza c’è. Alcuni giornali hanno scritto: «Sirine perde la finale», «Sirine ko contro l’avversaria cinese Wu Yu». È il modo più sbagliato di raccontarlo, per me è stata una grande vittoria.