La lunga attesa di Human, iraniano di nascita ma di «fede granata»
Il caso Sono quaranta gli anni che Human ha impiegato per diventare italiano nonostante abbia sempre vissuto in Italia, qui abbia studiato, lavorato e pagato le tasse. Colpa della burocrazia, che esige un certo numero di contratti di lavoro consecutivi e di buste paga. A complicare le cose potrebbe essere il fatto che il padre ha aperto un luogo di culto musulmano sciita a Torino, attirando le curiosità di alcuni
Il caso Sono quaranta gli anni che Human ha impiegato per diventare italiano nonostante abbia sempre vissuto in Italia, qui abbia studiato, lavorato e pagato le tasse. Colpa della burocrazia, che esige un certo numero di contratti di lavoro consecutivi e di buste paga. A complicare le cose potrebbe essere il fatto che il padre ha aperto un luogo di culto musulmano sciita a Torino, attirando le curiosità di alcuni
Human è un bel ragazzo, alto e moro, la carnagione olivastra e il pizzetto. Nato a Teheran da genitori iraniani, è arrivato a Torino quando aveva pochi mesi. Ha sempre vissuto qui tra noi, in Piemonte. L’italiano è la sua lingua madre, il persiano lo comincia a studiare nel 1991 quando con la famiglia si trasferisce a Teheran e frequenta l’anno di liceo internazionale, obbligatorio per i ragazzini cresciuti all’estero affinché imparino anche i rudimenti della religione musulmana e l’arabo, la lingua del Corano. In Iran, Human conosce i nonni, molto diversi tra loro: quello materno Mehdi era stato un funzionario del partito comunista Tudeh e, appena nato il nipotino, lo iscrive al partito. Da parte paterna, il nonno Abbas era invece un akhund, ovvero un membro del clero sciita. Il soggiorno in Iran non dura a lungo: i rapporti tra i genitori s’incrinano, nel 1992 Human e la madre tornano a Torino. È lei a crescerlo, sola.
In partenza per l’Iran, il dodicenne Human era vestito con camicia, cardigan e pantaloni. Un sogno nel cassetto: diventare direttore d’orchestra. Dodici mesi dopo, di ritorno in Italia, indossa pantaloni larghi e Nike: è un tredicenne determinato a perseguire la carriera di rapper, una professione che ha già preso piede a Teheran ma non ancora a Torino. Si diploma al liceo artistico Cottini, inizia a lavorare come grafico, nella postproduzione video e nel web design. Si arruola come volontario nella Croce Rossa, sulle ambulanze. La passione diventa professione. Otto anni di precariato. Il 1° gennaio di quest’anno riesce finalmente a ottenere un contratto a tempo indeterminato.
Human Hashembeiky compie quarant’anni il prossimo 29 maggio. Per quella data sarà andato all’anagrafe per la carta di identità elettronica e avrà restituito il permesso di soggiorno alla questura di Torino. Sono quaranta gli anni che Human ha impiegato per diventare italiano nonostante abbia sempre vissuto in Italia, qui abbia studiato, lavorato e pagato le tasse. Colpa della burocrazia, che esige un certo numero di contratti di lavoro consecutivi e di buste paga. A complicare le cose potrebbe essere il fatto che il padre ha aperto un luogo di culto musulmano sciita a Torino, attirando le curiosità di alcuni. In ogni caso, l’iter per ottenere la cittadinanza italiana è stato un percorso a ostacoli. Non sempre è così, osserva Human: «Tempo fa ho assistito alcuni profughi, ospiti del centro polifunzionale di Settimo Torinese.
Grazie all’aiuto di Croce Rossa, alcuni di questi hanno ricevuto la cittadinanza italiana dopo soli cinque anni. Da volontario e dipendente della Croce Rossa, in quel periodo responsabile della comunicazione, osservavo stupito». Il conferimento della cittadinanza italiana a Human è avvenuto lo scorso 22 gennaio presso la sala matrimoni del Comune di Torino, in via Carlo Ignazio Giulio. Con un pizzico di ironia, gli amici gli hanno regalato una scatola di amaretti di Saronno con la scritta «Repubblica italiana», il classico cd di Toto Cutugno e copia della Costituzione.
Per il resto, nulla cambia: il piatto che preferisce è ancora il vitello tonnato, al momento del dolce opta per il bunet. Sul comodino ci sono impilati l’ultimo libro di Giuseppe di Culicchia e quello di Massimo Gramellini, Istanbul di Orhan Pamuk, Costantinopoli di De Amicis, le poesie di Hafez e La religione di Zarathustra di Pettazzoni. La libreria preferita resta Il Libraccio, a due passi da piazza San Carlo. I bar quelli di fronte allo stadio Filadelfia. E sì, perché quello con il calcio è un appuntamento fisso: «Mentre attendevo risposta per la domanda di cittadinanza, ho ricevuto la visita di tre signori in divisa. Provenienti da Roma, sono venuti nell’appartamento di corso Lecce, dove vivo con mia madre. Mi hanno posto una serie di domande, non ultima quella sulla mia fede. Sono rimasti di sasso quando mi sono tolto il maglione e, in maglietta, ho mostrato loro i tatuaggi e risposto entusiasta: la mia fede è granata!».
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