Cultura

La linea di confine tra uomini e non uomini è tra le acque del Rio Grande

La linea di confine tra uomini e non uomini è tra le acque del Rio Grande

Scaffale «Solo un fiume a separarci» di Francisco Cantú, per minimum fax. L'autore ha lavorato come poliziotto di frontiera tra il 2008 e il 2012, respingendo gli «illegali»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 27 aprile 2019

Quando si arriva a El Paso, osservando il fondovalle desertico che balugina nella foschia, è impossibile capire dove finiscano gli Stati Uniti e inizi il Messico. Il Santa Fe Street Bridge è un ponte pedonale protetto da inferriate, sospeso su un canalone di cemento che conduce da El Paso a Ciudad Juárez. Per andare a sud nessuno ti chiede i documenti; se vieni dal nord del mondo non hanno alcuna importanza.
D’altro canto, diventano improvvisamente fondamentali qualora dovessi percorrere il tragitto all’inverso, dal sud verso nord. Negli anni ’90 la polizia ha sigillato le settecento miglia di frontiera e i clandestini non passano più dalle città, da El Paso e San Diego, ma attraverso il deserto, sotto al sole ustionante, dopo aver guadato lo spartiacque del Rio Grande – da cui l’appellativo wetbacks, schiene bagnate. Vengono rapiti e torturati dai coyote, trafficanti di uomini che li usano per ricattare le famiglie ed estorcergli denaro, finiscono per diventare mule, corrieri per i signori della droga, pedine sacrificabili nello scacchiere della infinita e remunerativa war on drugs.

LA COMUNITÀ si costruisce attraverso i confini, decidendo cosa includere e cosa escludere, istituendo un noi e un voi. Con l’ottimismo della rivoluzione tecnologica sembravano destinati all’obsolescenza e invece, forse proprio in reazione all’accelerazionismo, sono tornati prepotentemente di moda, col loro corollario di dazi, guardie in divisa, muri e transenne. Francisco Cantú ha lavorato come poliziotto di frontiera tra il 2008 e il 2012 respingendo gli «illegali», ma il confine lo porta impresso nel sangue, nelle sue origini per metà messicane e negli studi che aveva condotto prima di entrare in servizio. Metà dei suoi colleghi sono ispanici, come lui e proprio per questo è convinto che non si siano arruolati nella polizia di confine per opprimere il prossimo bensì per le opportunità di una qualche carriera e magari perfino per «offrire un po’ di conforto» alle «persone perbene» che tentano di oltrepassare quella linea immaginaria, per dirla con le parole di Johnny Depp in Blow. Eppure il loro lavoro consiste di fatto nello snidare uomini dai loro nascondigli di fortuna, rovesciare sulla polvere le loro scorte di acqua e alimenti, svuotare gli zaini e bruciarne il contenuto, pisciare sopra gli indumenti o usarli per addobbare a festa un cactus.

I MIGRANTI, disumanizzati dalle politiche e dalla comunicazione e ridotti a non-uomini, come gli zombie del romanzo di Aleksandar Hemon, vanno dissuasi con ogni mezzo. Questo è lo scopo della polizia di frontiera per Cantú: «E, Cristo, sembra terribile, e forse lo è, ma l’idea è che, scoprendo che le loro scorte sono state saccheggiate e distrutte, quando tornano per recuperarle si rendano conto della situazione – e cioè che sono fottuti, che non hanno alcuna speranza di continuare – e abbandonino l’impresa all’istante, che si salvino e cerchino la statale più vicina o anche solo una strada sterrata per fermare un agente di passaggio, oppure si dirigano verso il primo villaggio riarso per bussare alla porta di qualcuno che gli offrirà acqua e cibo e ci chiamerà, chiedendoci di andare a prenderli. Ecco qual è l’idea, il senso di tutto».
Solo un fiume a separarci (traduzione di Fabrizio Coppola, minimum fax, euro 16) di Francisco Cantú è la storia dello sgretolamento della buona fede del suo protagonista, una disillusione che procede di pari passo assieme alla presa sempre maggiore che i cartelli della droga hanno sul territorio di confine dopo l’inasprimento delle misure volute dagli Stati Uniti per rendere la frontiera sempre più invalicabile.
Alle volte si ha la sensazione di leggere una excusatio non petita, una di quelle agiografie in cui si prende le distanze dalle proprie azioni e contemporaneamente le si ammanta di nobili intenzioni, condannando gli altri ma salvando se stessi, quasi che il ruolo svolto da Cantú fosse stato quello di un kapò per la propria gente. Paradigmatico in questo senso è un passaggio: «sembra che tutti abbiano scordato la pietà, Credo di non aver mai visto uno di loro mostrare un briciolo di umanità o compassione. Non so come facciano. Come si fa a tornare a casa dai propri figli, di sera, dopo aver trascorso l’intero giorno a trattare altri esseri umani come se fossero cani».

A vincere le resistenze è la voce nuda del suo narratore che si consegna senza infingimenti al lettore e squassa il viluppo gelatinoso dello storytelling trumpiano riducendolo a ciò che è. La parabola di Cantú però rimane quella di chi ha visto spostarsi il confine tra il noi e il loro un po’ più in là, fino a vedersi ammesso nel club dei vincenti dalla porta di servizio, per poi ritrovarsi subito dopo a dover negare l’accesso a qualcuno che somiglia terribilmente proprio a lui.

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