Si dovrebbe discutere di presidenzialismo: per questo la ministra delle Riforme Elisabetta Casellati ha convocato la Lega, nel quadro degli incontri con la maggioranza prima di passare da domani a quelli con l’opposizione. Ma basta guardare la composizione della delegazione leghista per capire che si parlerà anche, anzi soprattutto di autonomia differenziata. Con i capigruppo Massimiliano Romeo e Riccardo Molinari c’è infatti il ministro Roberto Calderoli, autore della proposta di autonomia depositata il 29 dicembre.

Sul presidenzialismo la Lega non si allarga, nulla a che vedere con lo straripante entusiasmo di Silvio Berlusconi il giorno precedente. Sull’obiettivo non si discute ma presidenzialismo può voler tante e tanto diverse cose. Bisogna stare attenti, analizzare le esperienze dei vari Paesi, valutare quale formula si attagli meglio al Paese e alla Costituzione. La Lega non si mette di traverso ma neppure la fa facile e la ragione è chiara. Prima del semaforo verde sulla riforma di Giorgia Meloni chiede il saldo, il via libera all’autonomia. Per vararla ci vorrà un anno, afferma Calderoli confermando così la sfida di Matteo Salvini che vuole chiudere entro il 2023. Molto meno di quel che richiede una riforma costituzionale, con la doppia lettura e sei mesi di pausa riflessiva in mezzo. Dunque all’uscita Molinari mette decisamente il dito nella piaga: «Presidenzialismo e autonomia vanno di pari passo politicamente ma l’autonomia viene prima perché ha un iter legislativo molto più semplice». Il governatore del Veneto Luca Zaia, che nella Lega è quello che più martella per fare presto, è più categorico: «Varare insieme le due riforme è impossibile». È il contrario esatto della tabella di marcia che hanno in mente la premier e FdI, secondo cui le due riforme dovrebbero arrivare al traguardo appaiate.

Fosse davvero solo questione di tempistica il problema sarebbe di ordine minore. Ma la Lega sospetta, come tutti peraltro, che l’operazione dilatoria miri essenzialmente ad annacquare e stemperare il modello d’autonomia a cui punta il nord leghista, seccamente punitivo, checché ne dica Calderoli, nei confronti delle Regioni povere e dunque del sud. A nessuno è sfuggito il silenzio assoluto sul tema nella kermesse tricolore di Milano: si è parlato di tutto tranne che appunto di autonomia. Del resto proprio la presidente del consiglio ha più volte assicurato che l’uguaglianza sarà garantita e difesa e quando Fabio Rampelli di Fdi dichiara che «importante è fare bene più che fare presto» i leghisti subodorano la palude. I duri nordici, come l’ex ministro Roberto Castelli o l’eurodeputato Gianantonio Da Re, del resto non la mandano a dire: «Con questo governo il cammino dell’autonomia sarà ancora più difficile».

Il potere contrattuale del Carroccio sull’autonomia, però, dipende in buona parte proprio da come andranno i colloqui tra l’ex presidente del Senato e i partiti d’opposizione sul presidenzialismo. Giovedì il Terzo Polo si dichiarerà pronto al dialogo: non all’elezione del presidente della repubblica ma a quella del premier.

L’ora della verità scoccherà la settimana prossima, quando arriverà il turno dei 5S, sulla cui opposizione alla riforma non dovrebbero esserci dubbi, e del Pd, che è l’ago della bilancia. Se accetterà di cercare con la maggioranza l’accordo su un modello di presidenzialismo la riforma nascerà in Parlamento, percorso che preferiscono di gran lunga anche i partiti di governo. Probabilmente non in una bicamerale come quella presieduta da D’Alema negli anni ’90, perché i tempi diventerebbero biblici e gli ostacoli insormontabili, ma in una mini bicamerale oppure nelle commissioni Affari costituzionali delle due camere congiunte. Se invece il no del Pd sarà granitico a formulare la proposta sarà il governo, entro giugno, e in questo caso il peso della Lega aumenterà di parecchio. Non a caso Calderoli ipotizza come soluzione perfetta per l’autonomia proprio la stessa formula: una proposta del governo. Magari contestuale a quella sul presidenzialismo ma con tempi di approvazione ben più celeri.