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La guerra, l’Europa, i populismi, nel centenario di Berlinguer

La guerra, l’Europa, i populismi, nel centenario di BerlinguerEnrico Berlinguer in un comizio a Milano, 1982 – Dino Fracchia

L'analisi Il mondo appare un luogo poco raccomandabile, tra guerra e crisi climatica, rinascita dei nazionalismi e pericoli autoritari, tra ascesa dei violenti e diffusione della violenza

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 12 aprile 2022

La guerra al centro dell’Europa con la brutale aggressione russa all’Ucraina, fuori da ogni diritto internazionale quali che fossero i motivi dichiarati per giustificarla, ha segnato l’inizio di quest’anno nel quale ci preparavamo a ricordare il centenario della nascita di Enrico Berlinguer non solo per motivi affettivi, ma per riflettere sul suo pensiero e sul secolo che è trascorso. (…)

Come è possibile che la guerra sia tornata in Europa sin da quando fu bombardata Belgrado dalla Nato per strappare alla Serbia il Kosovo? E perché continuano le guerre più o meno (apparentemente) concluse nel Medio e Vicino Oriente o in Libia a pochi chilometri dalle coste siciliane? Da dove viene il nazionalismo che dilaga nel mondo? Perché si è tanto estesa la tendenza che viene chiamata “populismo”? E come è possibile che dopo le catastrofi generate da fascismo e nazismo quelle idee siano tornate a fare proseliti e a costruire organizzazioni? Che cosa provocherà questo nuovo incubo della guerra russo-ucraina in atto? (…)

Quando, dopo lo stalinismo, dopo Krusciov, dopo il breznevismo e dopo la guerra scatenata e perduta dai sovietici in Afghanistan, venne la speranza, con Gorbaciov, di una radicale riforma democratica del sistema sovietico, la potenza economicamente e politicamente vincente, gli Stati Uniti, volle sopprimere quella speranza, favorendo la grande rapina privatistica dei burocrati, promuovendo e proteggendo il potere di un proprio seguace, quale era Eltsin, affermatosi al potere bombardando il parlamento liberamente eletto. E sottovalutando la inevitabile rinascita del nazionalismo di una Russia convertita al capitalismo più selvaggio e umiliata oltre misura.

In Italia la originale visione cui era approdato Berlinguer del bisogno e dell’ideale di liberazione sociale – la visione combattuta dai sovietici e dai partiti legati a loro, che prese il nome di “eurocomunismo” e divenne poi la possibile traccia di una nuova sinistra – fu tacitamente sepolta con lui, dopo la sua morte precoce, da gran parte dei suoi compagni che, poi, pensarono fosse necessario cancellare il loro medesimo partito. Il quale si chiamava “comunista” come tanti nel mondo, ma non era assimilabile ai suoi omonimi eppure scomparve come tanti altri e come l’Unione Sovietica. Per tutto ciò Berlinguer fu definito uno sconfitto, un fallito o, nel migliore dei casi, un sognatore d’illusioni.

Berlinguer visse per quarant’anni come precoce dirigente e poi capo del partito cui si era votato. E così come aveva abbracciato da giovane, anche contro la classe sociale cui apparteneva per nascita, le idee di liberazione sociale e umana, pensandole incarnate nello Stato che aveva dato un contributo decisivo alla sconfitta dei nazisti e dei fascisti, in egual modo ne avvertì la mistificazione da parte di coloro – la dirigenza sovietica – che avrebbero dovuto trarne ispirazione per riformare la creatura ereditata da una storia fatta da eroismi e sacrifici inauditi insieme ad atrocità impensabili poi denunciate da uno di loro, Krusciov.

Tuttavia, e fu questa la vera rottura dentro il suo partito ben prima dell ’89, opposte erano le idee sul significato del fallimento, sempre più evidente, della esperienza sovietica e cioè della fine, da Berlinguer medesimo proclamata, della “spinta propulsiva” delle esperienze nate a seguito della Rivoluzione d’ottobre. La parte maggioritaria del gruppo dirigente del Pci, come si vide poi, aveva maturato la convinzione che bisognasse aderire senza riserve alla realtà data e dunque rompere totalmente con il proprio passato.

Al contrario dei liquidatori, Berlinguer citava Mitterrand («tagliare le proprie radici pensando di fiorire meglio può essere solo il gesto di un idiota») per dire che non si poteva e non si doveva rinunciare alle proprie ragioni originarie e sostanziali. Alle radici del movimento d’ispirazione socialistica c’è la critica del modello capitalistico: rinunciarvi significa rinunciare alla propria missione. Ma insieme pensava a un altro modo di interpretare quella funzione critica. Innanzitutto con il rinnovamento dei contenuti fondamentali, data l’usura e il crollo di molta parte dell’edificio antico. Da qui le sue nuove idee sul pacifismo, il femminismo, l’ambientalismo, le motiviazioni etiche dell’impegno politico.

Riorientare l’aspirazione a una società volta a realizzare la “libertà di ciascuno e di tutti” pareva un’opera controcorrente non solo improba ma velleitaria e perdente. (…) Ma la vittoria del capitale nella lotta di classe (ben dichiarata dal supermiliardario Buffet) non poteva sopprimere le contraddizioni economiche e sociali costitutive del sistema – con le conseguenze note del disastro ambientale con pandemia e della crescita di diseguaglianze paurose.

La globalizzazione del mercato dei capitali alla ricerca, secondo la propria natura, del massimo profitto, se giovava ai paesi a basso prezzo del lavoro e arricchiva a dismisura i finanzieri, penalizzava nei paesi ricchi i lavoratori abbandonati dalle sinistre divenute amministratrici del sistema ed esperte, non solo in Italia, dei tagli allo Stato sociale, massima creatura del movimento socialistico novecentesco (ivi compreso il Pci). Venivano di conseguenza la rinascita del nazionalismo (negli Stati Uniti e in tanti paesi del mondo) e l’affermazione del populismo, entro cui trovava posto la ripresa di pulsioni e argomentazioni di tipo fascistico.

Ad aggravare la condizione dell’insicurezza nelle società del benessere e nei rapporti internazionali fu la stupidità dei vincitori. Convinti tutti, a dichiarata imitazione dell’Impero romano, della funzione determinante della forza militare – unitamente al monopolio informativo – per l’esercizio del dominio e incapaci di pensare a una egemonia condivisa con altri. Da ciò la tacita insofferenza per il processo di unificazione europea (fino all’inclinazione per la Brexit) e l’umiliazione della Russia, sconfitta nella guerra fredda.

Il mondo umano appare adesso un luogo assai poco raccomandabile, tra guerra guerreggiata e crisi climatica, tra rinascita dei nazionalismi e pericoli di ritorni autoritari, tra ascesa dei violenti e diffusione della violenza – ivi compresa quella, la più vigliacca, contro le donne. Tuttavia, ciò non significa una sterile nostalgia del passato: la guerra fredda non fu un tempo raccomandabile. Ma spinge a capire che la condizione attuale è figlia di una cattiva politica, di una sbagliata lettura di quella vittoria.

La speranza non è morta. Non ricordo mobilitazioni giovanili autonome così vaste come quelle contro il disastro ambientale, cui fanno eco in Italia anche nuove e valide mobilitazioni studentesche. Il nuovo femminismo, che parve d’élite, e sembrò in declino, vede una diffusione inedita. Il movimento per la pace nel mondo ha più ragioni che mai per riprendere e riprende for- temente.
Può essere che la visione dell’ultimo Berlinguer fosse troppo avanzata per i suoi tempi, ma si dimostra ancora oggi come l’unica alternativa percorribile ai disastri del presente.

*Una versione più lunga di questo intervento apre il numero 1, 2022 in uscita di Critica Marxista

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