La guerra in Europa e l’ambigua debolezza degli Stati uniti
Scenari Il conflitto ucraìno non è al top dell’agenda di Biden, alle prese con le divisioni nella Nato allargata. Su di lui incombono le elezioni di midterm di novembre, l’inflazione e la crisi sociale
Scenari Il conflitto ucraìno non è al top dell’agenda di Biden, alle prese con le divisioni nella Nato allargata. Su di lui incombono le elezioni di midterm di novembre, l’inflazione e la crisi sociale
Di ritorno da New York, sono e resto convinto che la guerra ucraina sia il sintomo di un pericolo globale che si alimenta della debolezza dei contendenti in campo: l’aggressore russo e il presunto beneficiario statunitense. Non certo l’Europa, che vede una parte del proprio territorio nuovamente ridotto a teatro di orrori e distruzioni causate da un conflitto a cui dovrebbe, e forse potrebbe, porre fine.
Basta osservare la propaganda di guerra che scaturisce da Washington e da Mosca e che si diffonde in tutta Europa, fino a diventare ragione di esistenza e di resistenza a Kiev e dintorni. “Cinque milioni di baionette”, “li respingeremo sul bagnasciuga”, parole che rimbombano nella memoria di alcuni di noi e che si ritrovano trasformate nelle paginate o nei telegiornali che evocano effimere vittorie e sconfitte sul terreno conteso, ma che nulla garantiscono, se non la continuazione delle sofferenze dei popoli colpiti.
Sulla debolezza di Mosca non occorre soffermarsi, se non come spiegazione di un aggressività volta a compensare un’umiliazione storica che scaturisce dall’involuzione di un sogno rivoluzionario e dalla disintegrazione parziale del proprio territorio nazionale; di cui l’ex alleato della Seconda Guerra Mondiale, poi avversario-connivente nel contesto di quella fredda, ha approfittato per rianimare un proprio strumento militare. “Out of area or out of business”, fuori area o fuori uso, è diventata la parola d’ordine della Nato, dopo la caduta del Muro di Berlino.
Meno ovvio, ma più inquietante, per i suoi effetti in Europa, è il declino tutto politico degli Stati Uniti. Partiamo da alcune constatazioni immediate. Quella guerra in casa nostra, che giustamente domina l’agenda politica europea, figura si e no al terzo o al quarto posto di quella dell’inquilino della Casa Bianca. Incombe sulla presidenza Biden l’esito delle Midterm Elections, in scadenza a novembre, che potrebbero consegnare il Congresso ai repubblicani e preludere alla loro conquista della presidenza nel 2024 (con o senza Trump quale candidato).
A questo fine, gli effetti economici e sociali di un’inflazione galoppante che rischia di tradurrsi in stagnazione, la volontà della Corte Suprema di menomare il diritto di aborto, la più recente strage razzista in un supermercato, persino le difficoltà di approvigionamento di alcuni beni alimentari essenziali per neonati, dominano il dibattito politico assai più della guerra lontana, ormai definita “by proxy”, ovvero senza vittime statunitensi.
Una guerra la cui durata – non a caso favorita dagli interventi verbali di Biden e da quelli militari contro flotta e generali russi – è comunque destinata ad accrescere le tensioni con alleati europei, costretti ad assumersi i costi più rilevanti delle sanzioni e a subire le limitazioni di sovranità determinate da un rilancio della Nato. L’apparente successo delle domande di adesione di Finlandia e Svezia ne rivela le contraddizioni interne attraverso il veto di Erdogan, con una motivazione che enfatizza l’importanza di uno status di neutralità che ha consentito loro una sacrosanta protezione delle minoranze curde.
Questi segnali contingenti del declino dell’egemonia degli Stati Uniti si inseriscono in una tendenza di ormai lunga durata, soltanto occultata da quella più evidente dell’avversario-connivente sovietico. Da una successione di vittorie militari, a partire dall’inizio della guerra nel Vietnam, in tempi più recenti in Iraq, Afghanistan, Libia sono scaturite altrettante sconfitte politiche. Le dichiarate intenzioni di esportare democrazia e diritti si sono tradotte in regimi che ne sono ugualmente privi, utilizzando metodi e mezzi simili a quelli denunciati nei propri avversari.
Per tacere dei rischi che corrono tali valori all’interno di una nazione che non è mai riuscita a sottrarsi ai propri impulsi isolazionisti. La presidenza trumpiana, che ha alimentato e continua a sfruttare la guerra tra poveri bianchi ed immigrati, la contestazione dei risultati elettorali resi plausibili dalla debolezza dei meccanismi amministrativi che vi sottendono, l’occupazione fisica del Campidoglio, il 6 gennaio 2021 costituiscono dei segnali inquietanti.
Anche per noi. È questo il punto. Quali europei e cittadini del mondo non possiamo permetterci alcuna Schadenfreude, alcun segno di soddisfazione suscitato dalle disgrazie altrui, rispetto a valori e istituzioni che sono anche nostri. Imperi in declino determinano conflitti che nessuno vorrebbe, salvo fabbricanti e mercanti di armi. Insegni lo scoppio della Prima Guerra Mondiale che neanche il più astuto cultore di Realpolitik aveva concepito (cfr. Paul Kennedy, “Ascesa e declino delle grandi potenze”, Solferino, attualmente in edicola).
Occorre, insomma, un nuovo senso di responsabilità nei confronti nostri e degli altri. La cessazione immediata della guerra in Ucraina può e deve diventare l’obiettivo unificante dell’Europa, primo passo verso un’unità europea, politicamente sovrana, al servizio di un mondo in difficile e pericolosa transizione verso una multipolarità governata e (più) pacifica. Oltretutto, noi italiani abbiamo facile accesso alla rilettura di Cattaneo e Mazzini. Forse allo stesso presidente del consiglio gioverebbe un ripasso, in vista dei prossimi appuntamenti parlamentari ed europei.
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