Le finali della coppa del mondo di rugby si sono spesso concluse con punteggi bassi e margini risicatissimi. Tanto più le due squadre in campo si equivalevano nei valori tecnici e atletici, quanto più era probabile che la sfida si risolvesse di stretta misura: le difese salivano in cattedra e a fare la differenza era la disciplina dei contendenti. Prima di ieri c’erano tre illustri precedenti: la finale del 1995 tra Sudafrica e Nuova Zelanda (15-12), decisa da un drop di Joel Stransky nei tempi supplementari; la finale del 2003 tra Inghilterra e Australia (20-17) risolta anch’essa da un drop di Johnny Wilkinson nell’extra time; infine quella del 2011 tra Nuova Zelanda e Francia conclusasi con il punteggio di 8 a 7, quando gli All Blacks si imposero grazie a una meta e un calcio di punizione mentre i francesi segnarono una meta con trasformazione: null’altro mosse il punteggio, fissato al 47’ e a nulla valsero gli attacchi dei coqs che andarono avanti per più di mezz’ora senza mai trovare un varco nella difesa avversaria. Ieri sera, con la vittoria del Sudafrica con il punteggio di 12 a 11 sulla Nuova Zelanda, si è aggiunto un nuovo tassello. A decidere questa sfida stellare (tre titoli mondiali a testa) è stata la disciplina, i sofisticatissimi piani di gioco, ma anche la presenza di una nuova figura introdotta da World Rugby, il Foul Play Review Bunker (FPRB) che molti chiamano “quello nel bunker”.

L’UOMO NELL’ALTO CASTELLO. Spieghiamo: se viene commesso un fallo di gioco pericoloso meritevole di un cartellino, la decisione è presa dall’arbitro sul campo, ma questi, dopo aver rivisto l’azione grazie all’ausilio del TMO e dei grandi schermi, una volta sanzionato il fallo con un cartellino giallo (dieci minuti fuori) può richiedere un’ulteriore indagine da parte del “bunker” per valutare, entro otto minuti, se da giallo il cartellino deve diventare rosso. Il bunker parigino di questi mondiali di rugby si trova allo Stadio del Roland Garros, quasi un’ora in auto dallo Stade de France, al riparo da sguardi indiscreti, e nessuno sa chi siano i componenti del team del FPRB.  Possono rivedere l’azione da ogni angolatura possibile, utilizzando ogni mezzo tecnologico a disposizione e agire come decisori di ultima istanza. Abbiamo dunque un cartellino giallo sub judice, e il giudice è sostanzialmente un incappucciato, il suo nominativo non compare nei referti di fine gara messi a disposizione dei media. Comunque la si pensi, il bunker ha deciso le sorti della finale perché il cartellino giallo comminato al capitano degli All Blacks al 27’ (placcaggio alto con impatto della spalla contro la testa di Jesse Kriel) è divenuto poi rosso e da lì i neozelandesi hanno disputato più di 50 minuti di gioco con un uomo in meno.  Oltre al rosso ci sono stati tre gialli: uno per gli All Blacks (Frizell), due per gli Springboks (Kolisi e Kolbe). World Rugby ha mostrato di avere preso molto seriamente la questione della salute dei giocatori e ha deciso di non tollerare più un certo genere di falli. Nulla da ridire su questo ma il metodo scelto pone qualche legittimo interrogativo.

L’EQUILIBRIO. Che il match si sarebbe svolto in una condizione di estremo equilibrio era chiaro fin dalla vigilia. A fronteggiarsi erano due squadre, due nazioni che del rugby hanno fatto una scienza (quasi) esatta. Ognuna a modo suo. I piani di gioco erano chiari fin dall’inizio. Gli All Blacks avrebbero fatto alla perfezione le molte cose che appartengono al loro bagaglio tecnico: presenza nelle ruck, assistenza, capacità di variare gli schemi, giocatori capaci di rompere i placcaggi e andare sempre oltre la linea di vantaggio (il prodigioso Te’lea), difesa sempre al limite del fuorigioco (e anche un po’ di più). Gli Springboks, loro avrebbero limitato al massimo tutti i possibili rischi. E il modo per farlo era semplice: tenere gli avversari lontani, nella loro metà campo, usare i calci, sfruttare ogni occasione per portare a casa dei punti. Avevamo pronosticato un successo degli All Blacks perché pensavamo avessero qualche risorsa in più; e il fatto che gli Springboks avessero optato per la formula 7+1 in panchina ci sembrava un azzardo. Non avevamo fatto sufficientemente i conti con il fattore disciplina e con il bunker. Con un uomo in più dopo mezz’ora gli Springboks hanno potuto sfruttare il piede infallibile di Handré Pollard e andare al riposo sul punteggio di 12 a 6 per poi mettersi un una posizione di attesa. Avevano perso subito per infortunio il tallonatore Mbonambi ma il suo sostituto, il poliedrico Deon Fourie (tallonatore e all’occorrenza terza linea), non ne faceva sentire la mancanza. E poi c’era Pieter-Steph Du Toit, un flanker di 2,01, i cui placcaggi erano letali per i trequarti neozelandesi. Ne faceva le spese anche Jordie Barrett, forse il più bel giocatore ammirato in questa edizione, uscito segnato da un paio di incontri ravvicinati con il gigante sudafricano. Dunque posizione di attesa. Giocate voi, noi vi aspettiamo e ogni volta vi ricacceremo all’indietro con i nostri calci di spostamento, compito che Pollard e De Klerk eseguivano alla perfezione. Giocavano gli All Blacks, giocavano meglio nonostante un uomo in meno, la loro era una partita di coraggio, lo sforzo di chi non si rassegna, non ci sta, e andavano anche in meta con Beauden Barrett ma poi sbagliavano la trasformazione (Mo’unga) e poi ancora un piazzato dalla distanza (Jordie Barrett) e restavano sotto di un punto: 12-11.

ENTRAVA la panchina degli Springboks, con i suoi incursori e lo specialista dei palloni rubati Quagga Smith, finivano anche loro in 14 (giallo a Kolbe) ma non sbagliavano più nulla, il muro difensivo era impenetrabile e ogni volta arrivava un calcio che ricacciava indietro gli All Blacks, nei loro 22 metri e con tutto il campo da risalire. Avevano vinto per un punto (29-28) la sfida nei quarti con la Francia, avevano avuto la meglio ancora di un punto (16-15) contro gli inglesi, adesso si portavano a caso un quarto titolo mondiale con il medesimo scarto. Per farlo ci vogliono mestiere e carattere, ricoperti di acciaio fuso. E’ finita così, con la festa della nazione arcobaleno, con il presidente della repubblica sudafricana l’ex sindacalista dei minatori Cyril Ramaphosa, vestito con la maglia (a maniche corte) della sua squadra, a dispensare dal palco della premiazione sorrisi, strette di mano, baci e abbracci. Felice lui, felici noi, tristi e amareggiati gli uomini in nero. In quello stesso momento, diversi chilometri più in là, in qualche stanza segreta dello stadio del Roland Garros, i componenti del team del Foul Play Bunker Review abbandonavano la loro postazione mentre i tecnici smontavano le apparecchiature. In assoluto anonimato. Al prossimo mondiale, chissà, a fare da giudice di ultima istanza ci sarà forse un’intelligenza artificiale.