Tra i giudici della Corte internazionale di giustizia riuniti ieri a L’Aja si è vistosamente distinta l’ugandese Julia Sebutinde, l’unica a votare “contro” su tutto, compreso il punto sugli aiuti umanitari che neanche il giudice israeliano aveva avuto l’animo di bocciare. Motivo di fondo, la natura «essenzialmente politica» di una faccenda che a suo dire non ha nulla che vedere con il diritto internazionale.

L’AMBASCIATORE UGANDESE presso l’Onu, Adonia Ayebare, ha preso subito le distanze ricordando che Sebutinde (prima donna a sedere nella Corte dell’Aja) arrivò a votare contro il suo stesso Paese in una disputa con la Repubblica democratica del Congo. «Qui contano i voti dell’Uganda all’Assemblea generale delle Nazioni unite – ha detto Ayebare – mai a favore di Israele». Ma i forti legami esistenti in concreto tra i due paesi potrebbero aver giocato un ruolo importante. Nell’ultimo incontro ufficiale tra il premier israeliano Netanyahu e l’anziano presidente Yoweri Museveni, al potere dal 1986 con un pugno di ferro che è andato indurendosi mandato dopo mandato, è venuta fuori una mezza promessa di aprire finalmente un’ambasciata in Israele, e di farlo direttamente a Gerusalemme. Era il 2020 e la pressione di Trump (Washington è l’altro tradizionale alleato di Kampala) era al suo massimo.

L’incontro avvenne peraltro a Entebbe, nome scolpito a fuoco nella storia israeliana per la spettacolare operazione condotta nel luglio 1976 in risposta al dirottamento da parte di un commando palestinese-tedesco di un aereo Air France decollato da Tel Aviv e in volo tra Atene e Parigi. Il raid fu un fiore all’occhiello delle capacità operative dell’esercito israeliano, anche se sul terreno oltre a sei terroristi rimasero 4 ostaggi, il comandante israeliano Yonatan Netanyahu, fratello del futuro premier. E ben 45 dei soldati ugandesi che cercarono di opporsi agli “invasori”.

AL POTERE C’ERA IDI AMIN, che qualche tempo prima aveva rotto i rapporti fino a quel momento ottimi con Tel Aviv, per via di una partita di cacciabombardieri che gli servivano per fare guerra alla Tanzania e che Israele all’ultimo decise di non vendergli. Ma nel 1971 era stato ricevuto in Israele con tutti gli onori e aveva stretto accordi commerciali e militari in continuità con il suo predecessore Milton Obote, deposto con un golpe. All’epoca di Entebbe Amin aveva già espulso tutti gli israeliani dal Paese. E pensare che nel 1903 gli inglesi avevano proposto agli ebrei l’Uganda come approdo finale.

Archiviato questo terremoto nelle relazioni bilaterali, Museveni ha visitato Israele due volte e in entrambi i casi ne ha riportato lucrosi contratti di forniture militari. Con la decisiva mediazione dell’ex capo del Mossad Rafi Eitan, che una volta andato in pensione ha investito in diverse attività in Uganda ed è diventato ottimo amico del presidente-padrone. Negli anni la collaborazione si è estesa dal comparto militare al settore minerario, alle agrotecnologie e alla pescicoltura nel Lago Vittoria.

Il voto “ribelle” della giudice Sebutinde potrebbe non essere estraneo a determinate esigenze diplomatiche. A meno che non si voglia lodare l’esemplare separazione dei poteri in quella che è una delle più solide “democrature” africane. con un regime che calpesta i diritti umani e ha un debole per leggi come quella recentemente incrudelita contro le persone e la “propaganda” LGBTQ , che si spinge fino alla pena di morte per i casi giudicati più gravi.

Nel frattempo anche il presidente Museveni ha qualche conto in sospeso con L’Aja. Contro di lui, suo figlio e diversi funzionari delle sue forze di sicurezza , lo scorso luglio è stata presentata una denuncia per crimini contro l’umanità (torture e uccisioni extragiudiziali in primis) commessi prima e dopo le elezioni del 2021. Circa 200 vittime hanno deciso di rivolgersi alla Corte penale internazionale, quella che persegue non gli stati ma i singoli individui.

UN’ALTRA BRUTTA NOTIZIA per l’eterno presidente è la candidatura agli Oscar del documentario che racconta la feroce persecuzione subita del suo principale oppositore, Bobi Wine, nato come rapper e cresciuto come leader di un movimento che ha nei giovani il suo motore propulsivo.