Aboubakar Soumahoro è finito al centro delle critiche non solo per l’attività della famiglia della compagna (con la gestione della coop Karibu e Consorzio Aid sotto indagine della procura di Latina). Da agosto sono cominciate le accusa anche al suo modo di condurre l’attività sindacale e, in particolare, alla gestione della Lega dei braccianti con una delle sedi nello stesso edificio delle cooperative. L’ex socio di Soumahoro, Soumaila Sambare, ha denunciato: «Durante la pandemia con la Lega braccianti abbiamo raccolto 250mila euro per procurare cibo a chi ne aveva bisogno nei ghetti. Circa 60, 70mila sono stati spesi ma quando abbiamo chiesto i resoconti siamo stati fatti fuori». E ancora: «Per organizzare la protesta di Torretta Antonacci reclutava migranti di Borgo Mezzanone», i ghetti del foggiano dove risiedono i migranti.

L’Usb, con cui Soumahoro ha lavorato dal 2007 al 2020, gli imputa di aver scelto una strada «individuale, che ha prodotto una spaccatura tra i braccianti». La Flai Cgil ha denunciato aggressioni verbali, spintoni e calci ai sindacalisti che cercavano di entrare nel Gran ghetto di San Severo: «Non erano gradite intromissioni, ci sono state minacce». Anche la Caritas ha sottolineato il clima di scontro che si era creato e, sulla raccolta fondi del Natale 2021 di 16mila euro per i più piccoli, «nel ghetto di Torretta non ci sono bambini, mentre a Borgo Mezzanone sono molto pochi». Dai racconti viene fuori un clima di scontro in una realtà gestita come un’emergenza che non deve finire mai.

Erminia Ricci è un’operatrice legale in Diritto dell’immigrazione: «Il sistema foggiano è un unicum perché sono diversi insediamenti un una sola provincia. Alcuni sono molto grandi, quasi delle cittadine. Ghetti rurali, a inizio del secolo scorso erano italiani quelli che arrivavano per la raccolta; negli anni Ottanta c’erano già i primi casolari occupati, il Gran ghetto (ribattezzato Torretta Antonacci) e Borgo Mezzanotte ci sono da almeno 20 anni. La popolazione è diventata per la maggior parte stanziale. Tutti gli interventi pubblici sono inefficaci, legati a un concetto di emergenza inaccettabile».

Le ragioni per cui esistono sono tante: «I ghetti – spiega – sono funzionali: ci focalizziamo sulle condizioni igienicosanitarie ma così si spingono interventi di tipo umanitario che non risolvono le cause. Ci sono perché in Italia è difficile accedere alla protezione internazionale o alla richiesta di asilo, diventano il luogo dove aspettare. Se non hai accesso all’accoglienza lì la trovi, rispondono agli interventi normativi che hanno reso le persone irregolari (come i decreti Sicurezza), rispondono a un razzismo diffuso perché se sei nero pure se hai un contratto e un permesso di soggiorno nessuno ti fitta casa. Poi ci sono le richieste di asilo selettive e le sanatorie truffa. Infine rispondono alle esigenze della raccolta di pomodoro, della piantumazione che fanno solo gli stranieri, della raccolta degli ortaggi. Per questo ci sono, per questo esistono le filiere economiche distorte: ci si concentra sul caporale e si ignorano le responsabilità di aziende e grande distribuzione. Per eliminare conflitti e ghetti bisogna intervenire su tutte le cause».

Allora non serve dare in gestione baracche e prefabbricati. Servono case, formazione e avvicinare l’offerta di lavoro. Racconta Fabio Ciconte, presidente associazione Terra!: «Nel foggiano avevamo il progetto In campo! Abbiamo formato una decina di persone del ghetto, trovato un’abitazione (con una fatica enorme), hanno fatto tirocini retribuiti col massimo previsto per 10 mesi, alla fine abbiamo chiamato una grande azienda di trasformazione per un paio di ragazzi, erano talmente qualificati che li hanno assunti nel team di agronomi per i controlli».