La gentrificazione etnica, gli arabi spinti via da Giaffa
Reportage Con la guerra in corso Israele frena gli sfratti, ma la paura cresce nell’antico gioiello palestinese che ora è un quartiere di Tel Aviv
Reportage Con la guerra in corso Israele frena gli sfratti, ma la paura cresce nell’antico gioiello palestinese che ora è un quartiere di Tel Aviv
L’Hilwe Market è un caffè arabo divenuto negli anni un punto di ritrovo per tutti gli abitanti, ebrei e palestinesi, nel cuore di quel gioiello di storia e architettura che è la città vecchia di Giaffa. È mattina ed è pieno, non pochi clienti sono seduti fuori, sul muretto attrezzato con grandi e comodi cuscini. L’avvocato Shadi Kabaha ci attende lì fuori, assieme a un caffè caldo. «Questo luogo è meraviglioso, la luce delle prime ore del giorno lo rende magico», ci dice mentre tra le nuvole spunta il sole che fa brillare la pietra delle case antiche, «Giaffa oggi è considerata un quartiere di Tel Aviv, ma ha una storia antica e gloriosa, è stata un porto fondamentale per il mondo arabo. Araba resta ancora oggi, pur ospitando popolazione ebraica e palestinese assieme».
SU DI ESSA da tempo grava un interrogativo, aggiunge Kabaha: «Fino a quando continuerà ad ospitare residenti palestinesi?». La gentrificazione in atto già da diversi anni, unita alle politiche delle società immobiliari israeliane, spingono fuori da Giaffa gli arabi. «Non solo loro, anche gli ebrei poveri, ma quando a subirne le conseguenze maggiori sono gli arabi non si può fare a meno di parlare di gentrificazione dalle radici politiche e non solo economiche» aggiunge l’avvocato.
La gentrificazione è un fenomeno globale, se ne parla un po’ in tutti i paesi. Vede i membri delle classi medie e alte trasferirsi in quartieri nei centri urbani spingendo in alto gli affitti e il costo delle case. Gli abitanti originari più poveri sono costretti a lasciare le loro case per trasferirsi nelle periferie o in altri centri.
DURANTE questo processo che i nuovi proprietari, individui o società immobiliari, amano definire di «rinnovamento urbano», le aree che erano state totalmente trascurate ottengono all’improvviso i massicci miglioramenti nelle infrastrutture e le opere di abbellimento che gli abitanti originari avevano invocato per lungo tempo e mai ottenuto. Inoltre, una pletora di attività commerciali e di svago invade gli spazi pubblici. «Ci sono diverse famiglie arabe che in questi anni hanno ricevuto l’intimazione di sfratto e dovranno lasciare la casa in cui hanno vissuto per generazioni», spiega Abed, un amico di Kabaha, che si unisce alla conversazione. «I palestinesi di Giaffa – prosegue Abed – hanno paura di ritorsioni, dopo il 7 ottobre la paura è cresciuta. La minaccia di espulsione dalla propria casa potrebbe ripresentarsi dopo essere stata congelata per qualche tempo».
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Non c’è normalità in questa quotidianitàLa paura a Giaffa ha nomi diversi: Amidar, Halamish, Compagnia per lo sviluppo della Vecchia Giaffa e il Custode per la proprietà degli assenti. Istituzioni create tra il 1948 e il 1960 per amministrare e sviluppare il patrimonio edilizio nazionale, anche se gran parte delle abitazioni e dei terreni era di proprietà di palestinesi prima della nascita di Israele e della loro confisca da parte del nuovo Stato. «Amidar e Halamish – racconta l’avvocato Kabaha – ottennero il controllo di un numero incredibilmente alto di edifici e appartamenti arabi che in molti casi hanno poi affittato ad altri cittadini arabi. Ora queste società vendono una parte consistente di questo patrimonio, spesso ad istituzioni religiose legate alla destra, e intimano alle famiglie arabe in affitto di lasciare le abitazioni».
NEL 1948 Israele prese il controllo di una intera città araba senza più la sua gente accanto a Tel Aviv: gli edifici e i terreni di Giaffa costituivano una quota significativa del patrimonio immobiliare del nuovo Stato. La popolazione della città era fuggita o era stata cacciata via e a Giaffa vennero ad abitare in gran parte palestinesi provenienti da altre zone che, a loro volta, avevano perduto tutto. Non erano i proprietari originari degli immobili e pertanto ancora oggi pagano un affitto mensile alle società immobiliari o sono inquilini tutelati. Ad essi si unirono ebrei mizrahi (nordafricani e del Medio Oriente), anch’essi costretti in alcuni casi a lasciare le loro case a Giaffa. I più esposti alle pressioni del mercato e alle politiche delle autorità però restano gli arabi.
LA GENTRIFICAZIONE a Giaffa ha assunto sempre di più un carattere «etnico». E lo stesso sta accadendo a Lod, Ramle e altre città «miste» arabo ebraiche, uniche eccezioni al modello israeliano della separazione. «Non vedrai mai lo sfratto di una famiglia ashkenazita (ebrea di origine europea) – spiega Yeheli Cialik, un giovane attivista che ha scelto di vivere nel rione di Ajami proprio per la sua composizione demografica mista – Qualcuno potrebbe dire che è una coincidenza, io non credo. Il costo della vita molto elevato, le case che hanno costi proibitivi, la politica dell’Amidar di vendita delle case a ricchi (ebrei) che neppure abitano qui e quando lo fanno non si integrano nella comunità e non iscrivono i figli nelle scuole pubbliche… Tutto spinge per buttare fuori da Giaffa i più poveri e quasi sempre sono arabi».
CONTRO la gentrificazione etnica non sono mancate le proteste negli ultimi anni. La mobilitazione della popolazione araba di Giaffa va avanti da almeno 15 anni. Nel 2021 si registrarono scontri violenti tra polizia e manifestanti quando un intero complesso residenziale abitato da palestinesi ma di proprietà delle società immobiliari fu venduto a una associazione nazionalista che lo trasformò in una scuola religiosa. Altre proteste avvengono periodicamente.
DA QUATTRO MESI e mezzo invece le famiglie arabe a rischio di espulsione sono ferme. Non parlano ai giornalisti. Jack (non è il nome vero) è uno di quelli che non vuole stare in silenzio. «La mia casa – ci dice – ha ricevuto l’intimazione di sfratto, Ho presentato ricorso, so che il comune ha congelato il mio e altri sfratti ma un giorno sarò cacciato via, non mi faccio illusioni». Sposato con due figli, vive nella casa in cui i suoi genitori hanno abitato per decenni. «Altri sono nella mia stessa situazione – aggiunge – ma mantengono una posizione di basso profilo. Il clima che si è creato dopo il 7 ottobre (giorno dell’attacco di Hamas nel sud di Israele, ndr) è pieno di insidie, i sentimenti antiarabi sono forti e potrebbero sfociare in azioni contro di noi». I politici intanto pensano alle elezioni amministrative del 27 febbraio.
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