Ramallah, piazza al-Manara (foto di Chiara Cruciati)
Ramallah, piazza al-Manara – foto di Chiara Cruciati /il manifesto
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Non c’è normalità in questa quotidianità

Medio Oriente Express L’infrastruttura dell’occupazione militare uccide il tempo e stravolge lo spazio. Ramallah dista da Betlemme appena venti minuti. Ma da Gerusalemme non si può passare. In mezzo, da oltre venti anni, c’è un muro di cemento alto otto metri. E allora bisogna attraversare la "valle del fuoco"

Pubblicato 9 mesi faEdizione del 13 febbraio 2024
Chiara CruciatiINVIATA A RAMALLAH

Hanno otto e sei anni, sono due fratellini palestinesi. Vivono alla periferia di Gerusalemme est, nel pezzo di città che confina con Betlemme. È qui che vanno a scuola. Ogni mattina la madre li accompagnava con la sua automobile fino al cancello dell’istituto, un bacio sulla guancia, ci vediamo alle 14. Dal 7 ottobre non può più farlo: la chiusura imposta dall’esercito israeliano lungo le strade della Cisgiordania significa l’isolamento delle comunità palestinesi dei Territori occupati. Nella pratica: blocchi di cemento, montagne di sabbia, cancelli e barriere di ferro sulle strade che si immettono sulle vie a scorrimento veloce.

I due fratellini scendono dall’auto della mamma davanti a uno di questi grandi cancelli gialli, sorvegliati a poca distanza dai soldati israeliani. Si infilano in mezzo alle sbarre e passano oltre. Ad attenderli al di là c’è il papà di un compagno di classe: come una staffetta, li sale in macchina e li porta a scuola. Loro si affacciano al finestrino e fanno ciao con la mano alla loro mamma.

È l’infrastruttura dell’occupazione militare: uccide il tempo, stravolge lo spazio, rende surreale la normalità della vita quotidiana, la militarizza. Impossibile immaginare come e quando si arriverà a destinazione, a scuola, al lavoro, in ospedale. O immaginare se ci si arriverà a destinazione. Un’occupazione multi-strato, che si infila nel territorio come si infila nella vita delle persone, la appende al fato.

Prendete Ramallah: se si potesse passare da Gerusalemme per raggiungerla, da Betlemme, ci si impiegherebbe una ventina di minuti, mezz’ora, dipende dal traffico. Ma in mezzo, dal 2002 c’è un muro di cemento alto otto metri. Da oltre vent’anni per andare da Betlemme a Ramallah si deve circumnavigare il muro israeliano e passare per Wadi Nar, la valle del fuoco. Non si chiama così a caso: è l’incubo di ogni automobilista, una strada che è una serpentina che piomba giù a picco e poi risale, correndo lungo il burrone. È l’unica via possibile per auto, servis (i furgoncini-taxi collettivi), i camion e i tir. Chi impara a guidare a Wadi Nar, può guidare ovunque. A un camioncino bianco si apre la portiera, dissemina detersivi lungo la discesa finché clacson e lampeggianti gli fanno intuire che qualcosa non va.

Il tempo intanto si dilata, un’ora, un’ora e mezzo, due e la speranza che il Container Checkpoint sia aperto. Dal 7 ottobre per mesi è stato sempre chiuso, la Cisgiordania spezzata in due da una sbarra e una manciata di soldati. Nelle ultime settimane riapre, ogni tanto. Stamattina era chiuso. Motivo sconosciuto. I palestinesi lo conoscono il loro territorio e ogni volta si inventano una via alternativa, a volte funziona. Si passa attraverso cave di pietra, strade sterrate, pietre e fosse, piccole e grandi, salite ripide, sfiorando alberi di ulivo e greggi di pecore. Anche qui, ci passano tutti, auto, servis, camion. L’esercito lo sa, lo sa che esistono vie alternative e non sempre le chiude. Nessun motivo di sicurezza, dunque, perché andare a Ramallah stamattina si può. Solo la pratica odiosa del decidere arbitrariamente quanto valgono lo spazio, il tempo, le energie di una popolazione intera e quanto fondamentale sia ribadire che qui nessuno è libero.

Alle porte di Ramallah, destinazione a portata di mano, jeep militari sbarrano l’ingresso di al-Ram, comunità a poca distanza dal checkpoint di Qalandiya, tra i più mortiferi degli ultimi decenni, cuore delle proteste di tanti giovani, lancio di pietre e fuoco vivo come reazione. Il servis riesce a passare.

Poco dopo l’esercito la chiude, quella strada, l’unica via di accesso a Ramallah dal sud della Cisgiordania. Al ritorno è impraticabile. Per rientrare a Betlemme automobilisti, tassisti e camionisti sono costretti a mettersi in viaggio verso nord. Verso Nablus, verso il checkpoint di Beit El, e poi di nuovo verso sud, lungo l’ennesima strada alternativa. Significa allungare ancora di più il percorso, significa una spesa maggiore. Invece di 23 shekel, il servis ai passeggeri ne chiede 30, “scusate, ma il viaggio è più lungo”. Una sorta di tassa indiretta dell’occupazione in tempi già magri.

Un paio di ore dopo ecco Betlemme. Destinazione raggiunta, una giornata persa.

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