Aveva appena 22 anni Feleknaz Uca quando fu eletta europarlamentare con la Linke tedesca. All’epoca, era il 1999, era la prima e unica ezida a sedere nell’aula di un parlamento. Nata in Germania da genitori ezidi con cittadinanza turca, nel 2014 è rientrata a Diyarabikir (la Amed curda) per entrare di lì a poco nel partito della sinistra curda e turca Hdp, di cui è diventata deputata e tra le responsabili delle questioni internazionali. Nel 2017 è finita nel mirino della magistratura turca che l’ha perseguita per propaganda terroristica insieme a centinaia di politici e amministratori dell’Hdp.

Uca è da anni impegnata al fianco del popolo ezida e della forma di autonomia nata in territorio iracheno dopo la liberazione dall’occupazione dell’Isis, iniziata il 3 agosto 2014 e definitivamente sconfitta nel 2017. La raggiungiamo al telefono in un giorno particolare: «Sto seguendo una delegazione internazionale diretta a Shengal per i dieci anni dal massacro, gli attivisti sono stati fermati. Al gruppo tedesco è impedito di lasciare l’aeroporto di Monaco, a quelli italiano e svizzero è impedito di entrare in territorio ezida. Sono già in Iraq, ma li hanno fermati a Tal Afar». Secondo il gruppo Defend Kurdistan, sui cinque tedeschi – detenuti in aeroporto per sette ore – pesa ora un divieto di espatrio di 30 giorni.

Non è la prima volta che accade, Uca parla di «volontà di isolare Shengal». Con lei abbiamo parlato del massacro compiuto dall’Isis dieci anni fa e di cosa ne è nato poi.

Migliaia di uccisi, migliaia di donne rapite e rese schiave dall’Isis. L’obiettivo era distruggere l’antichissimo popolo ezida. Cosa ci dice quel massacro, accaduto sotto gli occhi del mondo?

È molto importante per noi commemorare il decimo anniversario del genocidio degli ezidi e non dimenticarlo. Abbiamo assistito a 74 massacri nella nostra storia, ma quello del 3 agosto 2014 è stato il peggiore ed è avvenuto sotto gli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Migliaia di ezidi, donne e uomini, sono caduti nelle mani dell’Isis, oltre 450mila persone sono diventate rifugiate. A migliaia hanno perso la vita, i padri sono stati decapitati davanti ai figli e le donne vendute nei bazar di Mosul. Ancora oggi, dieci anni dopo, 2.600 donne e bambini sono ancora nelle mani dell’Isis. L’obiettivo era cacciare gli ezidi da Shengal e distruggere la loro cultura e identità.

Negli anni successivi gli ezidi di Shengal hanno preso le armi, si sono liberati dall’occupazione islamista e creato un’Amministrazione autonoma. Qual è la situazione oggi?

Se avessero avuto le loro unità di difesa prima del genocidio, il massacro non ci sarebbe stato o non sarebbe stato così grande. Per questo è importante che esistano unità di autodifesa, che gli ezidi si organizzino da soli, che possano prendere le loro decisioni e ottenere ufficialmente il loro status di autonomia per il futuro di Shengal e la sua ricostruzione.

Da anni lei si spende per il suo popolo, un popolo in diaspora. È possibile ancora parlare di cultura e tradizioni ezide, nonostante la dispersione nel mondo?

Ovunque viviamo, è importante praticare la nostra religione, ma anche mostrare che siamo una comunità pacifica e che, per la difesa della nostra cultura, siamo stati massacrati. Ci sono molte comunità ezide in Europa, molti centri religiosi che trasmettono alle nuove generazioni la nostra religione. Siamo anche attivi in politica estera per garantire che il genocidio sia riconosciuto dai singoli paesi europei a cui chiediamo di avviare procedimenti penali contro i responsabili del massacro.

A tal proposito, gli ezidi raccolgono da anni le prove degli abusi commessi dall’Isis e da chi ha permesso il massacro, prima di tutto il clan Barzani e i peshmerga di Erbil. Pensa che si potrà mai aprire un tribunale internazionale?

È importante che ci sia un tribunale dove i responsabili del massacro siano chiamati a rispondere. Il 3 agosto 2014 c’erano 12mila peshmerga a Shengal e più di 14mila soldati iracheni nelle aree vicine. Perché gli ezidi non sono stati protetti? I responsabili devono essere puniti.

Dopo il massacro, molti paesi hanno europei aperto le porte alle donne ezide, soprattutto la Germania. Una mossa criticata da molti a Shengal, letta come un modo per allontanare dalle proprie terre le testimoni del massacro.

Chi ha vissuto quella sofferenza deve poter ricevere sostegno psicologico a Shengal. È importante che le donne elaborino il loro trauma nella loro terra: le donne che vengono in Europa sono private dei contatti con gli altri ezidi, con le istituzioni e le associazioni. È come se non si volessero avere testimoni per evitare che la storia e la verità siano raccontate.