«Io sono ezida, non siamo rimasti in molti in Rojava, sicuramente meno che in passato». Sherwan Berry è stato co-presidente di Heyva Sor a Kurd, la Mezzaluna rossa curda operante in Siria. Nel 2014, appena laureato, ha guidato l’organizzazione nell’operazione di salvataggio degli ezidi in fuga da Shengal, nel nord-ovest dell’Iraq, a causa del brutale attacco dell’appena proclamato Stato islamico.

«IL 3 AGOSTO abbiamo ricevuto la notizia dai media – ricorda Sherwan – Improvvisamente tutte le forze sul posto, peshmerga, esercito iracheno e governo regionale, sono scappate». All’Isis fu lasciato campo libero: i miliziani uccisero migliaia di persone, rapirono e schiavizzarono oltre 6mila donne, costrinsero alla fuga mezzo milione di persone.

Il ruolo del Governo regionale del Kurdistan nel genocidio è ancora oggetto di discussione. Il 20 gennaio 2024 il Kurdistan Victims Fund ha intentato una causa contro la famiglia Barzani, il clan che da decenni governa a Erbil e a capo del Kdp, presso la corte distrettuale di Washington DC.

Quello del 3 agosto è considerato dagli ezidi il 74° massacro della loro storia: «Li chiamiamo ferman, letteralmente decisione. L’ultimo grande ferman è stato durante il genocidio armeno. Solitamente i sopravvissuti si rifugiavano proprio a Shengal».

«A quel tempo il Rojava non era forte come ora, le Forze democratiche siriane (Sdf) non esistevano e le unità curde di difesa Ypg e Ypj non ricevevano supporto dalla coalizione internazionale. Eppure venne presa immediatamente la decisione di lanciare un’operazione di salvataggio. Più tardi avrei saputo che 12 guerriglieri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) erano già a Shengal e stavano proteggendo e addestrando i sopravvissuti. A Shengal‎ incontrai il guerrigliero che li aveva guidati, Dilşêr Herekol. Analizzando gli avvenimenti nella regione, il Pkk aveva intuito che gli ezidi erano in pericolo. Tutto nella regione stava cambiando», afferma Sherwan.

«FU APERTO un corridoio nel mezzo del territorio controllato dall’Isis. I primi gruppi di Ypg provenivano da Qamishlo e Serêkaniyê, non erano ezidi. Uno dei primi caduti proveniva da un villaggio vicino al mio, si chiamava Qandil. Ricordo le parole di suo padre il giorno del funerale, diceva di essere orgoglioso che suo figlio avesse versato il suo sangue per i fratelli ezidi. Come ezida ne fui molto toccato, ma questa era l’attitudine delle Ypg».

«Tutta la popolazione partecipò al salvataggio – continua Sherwan – L’Amministrazione Autonoma spinse chiunque avesse un’auto ad andare incontro agli ezidi in fuga, che camminavano da giorni, tutto il carburante disponibile fu destinato a questo sforzo».

«Allestimmo dei punti di primo soccorso lungo il corridoio e preparammo il campo Newroz per accogliere i sopravvissuti, c’erano 50 gradi e molte persone avevano camminato per giorni sulla terra rovente senza scarpe. Una nostra infermiera si occupava solo di aprire e medicare le vesciche sui loro piedi, lavorò così tanto che fu costretta a letto per giorni per il dolore alla schiena».

Heyva Sor a Kurd oggi conta più di 1.600 operatori ed è la colonna portante del sistema sanitario della Siria del nord-est, ma nel 2014 contava appena un centinaio di volontari: «In quei giorni ci siamo distrutti, potevamo vedere l’esatto momento in cui alcuni di loro si rendevano conto di essere salvi, iniziavano a radunarsi e piangere insieme, donne dello stesso villaggio, parenti che non sapevano cosa fosse successo al resto della famiglia. L’ho visto molte volte, era il modo più immediato per sapere chi era salvo. Ricordo donne che si riconoscevano mentre erano in fila per essere medicate, ne uscivano per sedersi insieme a piangere. Raccontavano storie orribili. Cemila, che poi diventerà co-presidente di Heyva Sor, ogni giorno preparava la sua borsa medica e andava tenda per tenda. A volte dopo aver medicato le persone la vedevo rimanere lì, seduta ad ascoltare le loro storie e piangere con loro».

QUANDO IL GROSSO dei sopravvissuti, decine di migliaia di persone, raggiunse il Rojava, la missione si spostò sul monte Shengal, da cui sarebbe partita la liberazione. «Le Ypg ci dissero di usare solo grandi camion: l’Isis si infiltrava lungo il corridoio per piazzare delle mine, così avremmo potuto sopravvivere se ne avessimo presa una. Successe a un’auto con due combattenti Ypj di fronte a noi. La strada passava a fianco del villaggio di Sinune, a quel tempo controllato dall’Isis. Provarono a colpirci con razzi e mortai, ma riuscimmo a raggiungere la montagna. La prima bandiera che vidi all’arrivo apparteneva alle Hpg, la guerriglia del Pkk, ad accoglierci trovammo il loro comandante, Egîd Civyan».

La battaglia per liberare Shengal‎ è durata fino al novembre 2015. «Era un periodo duro, faceva freddo, non c’erano ospedali quindi dovevamo portare i feriti fino a Qamishlo e tornare, sono circa cinque ore di macchina. Con noi c’era un gruppo di Ypg, il Tabur Şehîd Sabri, reduci dalla resistenza di Serêkaniyê  contro Jabhat al-Nuṣra. Una mattina all’alba Isis ha inviato due autobombe verso di noi. Una di queste ci raggiunse ed esplose sulla soglia, seguirono due ore di scontri. Quando la situazione fu più calma portammo fuori i feriti. Per me fu scioccante, c’erano 16 feriti in un solo colpo», ricorda Sherwan.

«In questi casi bisogna essere intelligenti nel triage, alcune persone moriranno qualunque cosa tu faccia, altri sopravvivranno qualsiasi cosa tu faccia, devi individuare e trattare immediatamente quelli che senza le tue attenzioni moriranno. Fortunatamente in quell’occasione prendemmo le decisioni giuste e nessuno morì. Il loro comandante si chiamava Ciger ed era originario del quartiere Enteriye di Qamişlo, in cui vivevo anche io, quel giorno rimase ferito alle gambe ma lo tenne nascosto finché tutti gli altri non furono al sicuro. Cadde contro Daesh sul monte Abdulaziz, la sua foto oggi decora l’ingresso del quartiere. Ovviamente in un genocidio ci si concentra sui civili, tuttavia non bisogna dimenticare che anche i combattenti, pur non avendo moglie e figli, avevano una madre che pensa a loro ogni notte, quello che hanno fatto è veramente enorme».

IN SEGUITO alla liberazione di Shengal, il Kdp ha tentato di cancellare il ruolo del Pkk e delle Ypg nel salvataggio degli ezidi, sforzi volti a smantellare l’Amministrazione autonoma e le forze di autodifesa ezide ispirate al modello del Rojava.

«I peshmerga in fuga avevano abbandonato diverse armi tra cui una DShK, una mitragliatrice pesante. Un guerrigliero la usò per bloccare i mezzi dell’Isis. Divenne un simbolo della resistenza. Dopo la liberazione Mesûd Barzani venne in montagna a intestarsi la liberazione di Shengal mentendo davanti ai media. Dopo questo evento piazzarono un suo ritratto di fianco alla DShK».

«Nessuna potenza internazionale fu in grado di prendere rapidamente una decisione come le Ypg o le Hpg – conclude Sherwan – Come ezida credo che dovremmo essergli per sempre grati».