«Il carcere non è assolutamente il luogo adatto per curare questi ragazzi. L’anno prossimo prenderò la lista di questi giovani, nati alla fine degli anni ’90 o all’inizio del nuovo millennio, con disturbi comportamentali importanti, spesso con doppia diagnosi, di cui non si occupa nessuno, e lavorerò per loro. Quando arrivano in carcere è troppo tardi, bisogna prevedere percorsi psichiatrici e trattamentali all’esterno. Giovani che nei periodi critici – di solito estate e dicembre – compiono reati. E sono sempre di più: un numero cresciuto a dismisura con la pandemia».

È quasi un appello, quello di Monica Cristina Gallo, garante dei detenuti di Torino, che oggi parteciperà alla conferenza stampa dei familiari di Antonio Raddi, a due anni dalla sua morte. Era detenuto nel carcere torinese delle Vallette, Antonio, tossicodipendente di 28 anni quando morì il 30 dicembre 2019 per un’infezione polmonare dopo aver perso 25 chili di peso nel giro di tre mesi. La mamma Rosalia, il padre Mario e la sorella maggiore Natascia, con i nipotini che lo adoravano, si sono opposti alla richiesta del pm di archiviare l’indagine che vede accusati quattro medici penitenziari di omicidio colposo, per non aver fatto abbastanza per salvare la vita del giovane. La famiglia è in attesa della decisione del Gip.

Antonio Raddi

Dottoressa Gallo, chi era Antonio Raddi?
Un ragazzo bello, con un bel sorriso, e dalla mente brillante, ma con un passato di tossicodipendenza importante. E, come spesso avviene, quando le famiglie chiudono i rubinetti, per poter comperare le dosi cadono in percorsi di illegalità. Lui aveva già scontato parte della pena in carcere, poi era stato trasferito in una comunità esterna dove stava procedendo bene, come testimoniato da tutti gli operatori SerD. Aveva ancora da scontare poco tempo. Ma un giorno evade per andare a casa dai suoi. Perciò torna in carcere dove ricomincia tutto da capo: un anno di pena. Lui non lo accetta, lo sente come un fallimento, per sé e per la sua famiglia. Comincia a stare male, manifesta rabbia e sofferenza, qualche volta fa uso di farmaci, subisce alcune sanzioni disciplinari, e il pregresso percorso non gli consente di entrare nella comunità interna al carcere, Arcobaleno. Peggiora. Inizia un dimagrimento repentino, racconta di vomitare sangue, ha degli svenimenti, i compagni di cella riferiscono una condizione drammatica. La prima volta che l’ho visto, per richieste di routine, stava sulle sue gambe, poi su una sedia a rotelle.

In quei giorni è stato visitato? Ha ricevuto un supporto psicologico?

Il diario clinico riporta le visite e il supporto ricevuto ma, a mio avviso, con uno sguardo assuefatto. Un tossicodipendente in carcere resta solo un «tossico», che infastidisce, ha pretese, e il malessere non viene creduto. Lui in passato aveva avuto episodi di anoressia, che non vennero presi in considerazione. Il 10 dicembre venne trasferito nel «repartino» penitenziario dell’ospedale torinese Molinette, con piccole stanze senza bagno, sempre chiuse, dove non può fumare e con all’interno anche malati psichiatrici. Antonio non ce la fa, firma per uscire e torna nel penitenziario. Ho sollecitato più volte la direzione dell’istituto di una presa in carico più adeguata, anche psicologica, perché il ragazzo non reggeva la carcerazione. Dissi che Antonio non era in condizione di poter scegliere consapevolmente. Dopo quattro giorni venne ricoverato in un altro ospedale dove venne sottoposto ad alcune terapie e poi riportato nuovamente in carcere. Fino a quando entrò in uno stato di coma irreversibile. Io facevo da spola tra lui e i genitori, per cercare di fare da collegamento tra i sanitari e la famiglia, perché purtroppo – ed è un gravissimo problema – a loro non era concesso parlare con i medici. Credo veramente di non aver mai utilizzato così tanta energia “istituzionale” per far sì che questo ragazzo venisse salvato.

Perché questo caso viene fuori solo adesso?

C’era un’indagine in corso che noi abbiamo rispettato, come da indicazione del Garante nazionale, il cui ufficio si è anche occupato della vicenda. Una linea che è stata condivisa dalla famiglia con la quale ho instaurato un rapporto di fiducia. Due anni fa gli avvocati Massimo Pastore e Gianluca Vitale, legali della famiglia, mi chiesero di raccogliere i documenti e i dati riguardanti Antonio, e con il dossier che fornii loro andarono in procura. Ma ora, con la richiesta di archiviazione la situazione è cambiata.

Il Dap ha definito la casa circondariale Lorusso e Cutugno, «le Vallette», la più complessa d’Italia. Perché lo è?

Innanzitutto perché c’è una grandissima varietà di circuiti: collaboratori di giustizia, alta sicurezza, sex offender, comunità per tossicodipendenti, l’istituto di custodia attenuata per le madri con i bambini, l’articolazione di salute mentale, il famoso «Sestante»… Con così tanti e differenti percorsi trattamentali diventa di difficile gestione. E poi, come molti istituti, soffre di carenze di personale: ad oggi ci sono 1378 detenuti su 1096 posti disponibili, di cui 672 stranieri, con 12 educatori ed un solo direttore. Nell’articolazione psichiatrica oggi ci sono 26 persone. Ma c’è una sofferenza psichica che non è certificata. Fino a che non esplode. È di quella che ci dobbiamo occupare.