La “dignità” di Di Maio
Il pluriministro Di Maio si lamenta di una congiura nei suoi confronti. Ci si riferisce alla Relazione tecnica che accompagna il cd. decreto dignità e che parla di 8000 posti […]
Il pluriministro Di Maio si lamenta di una congiura nei suoi confronti. Ci si riferisce alla Relazione tecnica che accompagna il cd. decreto dignità e che parla di 8000 posti […]
Il pluriministro Di Maio si lamenta di una congiura nei suoi confronti. Ci si riferisce alla Relazione tecnica che accompagna il cd. decreto dignità e che parla di 8000 posti di lavoro in meno all’anno, in conseguenza della implementazione delle norme contenute nel decreto stesso. Un autogol clamoroso – un’eterogenesi dei fini, direbbero i filosofi – tale da attirare l’attenzione di tutte le prime pagine dei giornali. Il vicepremier dice che nessuno dei suoi ministeri ha apposto quelle cifre che lo colgono di sorpresa.
Ma Di Maio dovrebbe sapere – o qualcuno dovrebbe prendersi la briga di spiegarglielo – che la Relazione tecnica che accompagna il testo di legge è sottoposta alla verifica della Ragioneria dello Stato, non certo del ministro proponente. Sarebbe come chiedere all’acquaiolo se l’acqua è fresca. Il guaio è che la Ragioneria si muove, e non da oggi, sulla scorta di assai discutibili previsioni più o meno fondate sui numeri che ha di fronte. Quindi sulla base di ragionamenti assai poco dialettici. Poiché attualmente sono 80mila i contratti a tempo determinato che superano la durata massima di 24 mesi introdotta dal decreto legge, ne consegue, “tecnicamente”, ovvero secondo questo modo di ragionare, che essi si trovano fuori dal nuovo quadro normativo.
Perciò sarebbero a rischio. La Relazione tecnica infatti prevede che: «il numero di soggetti che non trova altra occupazione dopo 24 mesi (è) pari al 10% degli 80.000 di cui sopra (8.000)» l’anno. Nella tabella viene poi specificato che 3.300 non ritroveranno lavoro quest’anno (visto che il decreto è entrato in vigore il 14 luglio) e altri 8mila l’anno non lo ritroveranno dal 2019 al 2028. Un calcolo finanche banale, ma che ovviamente non tiene conto di quanto potrebbe – ma soprattutto dovrebbe – avvenire nel mercato del lavoro. Infatti se le cose stessero così, sarebbe impossibile qualunque norma che riducesse legislativamente la precarietà, in quanto per ciò stesso essa provocherebbe una disoccupazione immediata o quasi dei diretti interessati alla tutela.
A meno che il governo non preveda, oltre alla introduzione di causali nelle proroghe (facilmente aggirabili lasciando a casa il lavoratore assunto con il primo contratto senza causale e ricominciando daccapo con un altro) ed un aggravio modesto (lo 0,5%) di costo per le imprese, una ben più sostanziale incentivazione alla trasformazione del contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato.
Ma di ciò non c’è traccia nel decreto governativo per il quale appaiono del tutto fuori luogo le ottimistiche valutazioni che si sentono anche a sinistra – si veda l’intervista a Stefano Fassina su la Repubblica di ieri – di “un’inversione di rotta a un’impostazione keynesiana” da parte delle politiche del lavoro del governo Conte (dal nome dell’improbabile Presidente del Consiglio). In conclusione: la Ragioneria dello Stato fa il suo mestiere nel modo più piatto possibile – e forse in questo caso anche con una punta di perfidia in più -, ma è soprattutto il pluriministro Di Maio che deve rendersi conto su dove si trova. È poco dignitoso che un suo provvedimento, da cui si aspetta un rilancio di visibilità politica, gli sfugga completamente di mano ed esca a sua insaputa.
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