La destra sa che siamo in un altro mondo?
L’esordio del governo Meloni sulle droghe non lascia dubbi: i rave sono un crimine, in cui l’uso di sostanze è parte integrante della «minaccia alla sicurezza pubblica»; le persone che usano droghe (Pud) non vanno chiamate così (non sono persone), se no si avvalla il consumo (affermazione della Regione Lombardia, su cui si vorrebbe l’assenso della Conferenza delle Regioni); la Riduzione del danno (RdD) è una resa e una rinuncia, l’astinenza è l’unico legittimo obiettivo (e pazienza per la salute di chi usa); il «metodo Dadone è finito», da cui si deduce non si rispetterà più la legge 309/90 laddove prevede di organizzare la Conferenza nazionale ogni tre anni, con il contributo di operatori ed esperti (questo Dadone ha fatto nel 2021, e da qui è uscita la RdD come parte integrante delle politiche nazionali).
Nulla di sorprendente, è l’iper-proibizionismo della destra, quello della legge Fini Giovanardi del 2006, della galera, dell’ostracismo ideologico della RdD, non importano gli esiti nefasti in termini di salute, esclusione, carcere, aumento di mercati illegali. Ma se non c’è nulla di nuovo nella retorica della destra, molto di nuovo invece è accaduto: non siamo più nel 2006, e il governo Meloni sulle droghe potrà esercitare il suo potere a colpi di decreti, se crede, ma senza alcuna credibilità.
Gli ultimi 20 anni hanno cambiato lo scenario in modo radicale. L’impianto globale ONU, pur restando proibizionista, è stato costretto ad aprire al confronto sulla legalizzazione della cannabis, con un numero crescente di stati a favore; lo stesso UNODC ha incluso la RdD, a lungo strenuamente osteggiata, tra le politiche basilari, e le agenzie ONU dei diritti umani, il cui protagonismo sulle droghe è una incisiva novità, l’hanno inclusa come fattore determinante a garanzia del diritto alla salute; la UE si presenta compatta in sede ONU a sostegno della RdD e dei diritti, e include la RdD nella sua strategia, come un asse strategico. Siamo lontani dal quel 2009, quando all’ONU l’Italia di Giovanardi riuscì a rompere il fronte europeo e impedire l’adozione della RdD. La ricerca, in Europa e nel mondo, produce evidenze sulla RdD e ne valida l’efficacia.
Molto è cambiato anche in Italia: la RdD, anche se in modo parziale, poco sostenuta se non sabotata a livello politico, ha prodotto interventi di qualità e ha risposto al bisogno di tenere basso il rischio di consumi che sono di massa. È una realtà competente, trasversale tra settore pubblico, terzo settore e società civile, che sa produrre l’evidenza della sua efficacia. È un LEA (Livelli essenziali di assistenza), ed è entrata nei Piani nazionali Prevenzione e AIDS. Alcune città italiane nel 2021 si sono unite per innovare le politiche locali, e la loro prospettiva è quella della RdD. Le PUD sono un soggetto sociale, rivendicando i loro diritti, anche in Italia: il loro «Nulla su di noi senza di noi» pone alla politica domande legittime e non aggirabili.
È sempre più difficile immaginare una regione, sia pure di destra, che si espone al rischio politico e ai costi sociali di un picco di overdose o di sieroconversioni o di emarginazione sociale. A fronte di tutto questo, il governo Meloni dovrà fare i conti con un mondo che non è più quello di Giovanardi, e Mantovano – già alfiere della war on drugs – scoprirà che la sua delega alle droghe troverà non solo l’opposizione di tanti ma anche la sfida della realtà.
Per esempio, dovrà rispondere al CESCR, Comitato ONU sui diritti sociali economici e culturali, che sulla base del rapporto di Forum Droghe e altre associazioni, ha riscontrato violazioni in materia di diritto alla salute per la carente diffusione della RdD nel paese, e chiede al governo di provvedere. La frase della viceministra Bellucci, secondo cui «la RdD è superata», rischia di esporre il governo al ridicolo.
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