La destra gira a vuoto nel vicolo cieco del Mes
Economia Lo show propagandistico della Lega contro la ratifica della riforma fa arrabbiare Meloni
Economia Lo show propagandistico della Lega contro la ratifica della riforma fa arrabbiare Meloni
Niente vale il Mes per precipitare una maggioranza in piena crisi di nervi. Il centrodestra ci è già precipitato e secondo logiche non facilmente comprensibili. La premier, per esempio, sarebbe imbufalita con Matteo Salvini, secondo alcune voci al punto da minacciare crisi ed elezioni anticipate. Eppure sul da farsi, almeno in tempi brevi, i due la pensano allo stesso modo. Né l’una né l’altro hanno alcuna intenzione di ratificare la riforma del Mes di qui a una decina di giorni ma neppure di affossarla apertamente. Certo, la Lega allestisce sceneggiate, ruggisce per far capire anche ai più distratti che quelli duri e coerenti sono loro ma è teatro. La realtà è quella illustrata dal capo dei senatori Massimiliano Romeo: «Se il governo cadesse sul Mes sarebbe una follia. Noi e credo anche FdI siamo sempre stati contrari al Mes ma sarà Giorgia Meloni a dirci cosa vorrà fare. Noi seguiremo la linea del governo». Insomma la Lega è pronta a ripiegare ma la responsabilità deve prendersela la presidente del Consiglio.
IL GIOCO È SFACCIATO. Da un lato la Lega fa capire di essere disposta a ingoiare la riforma del Mes e nel caso del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e del «parere tecnico» del Mef che plaudiva alla riforma va anche oltre. Dall’altro proclama a voce altissima il suo No, affinché sia ben chiaro che la retromarcia dipende dalla premier e il Carroccio si adegua solo per senso di responsabilità. Salvini lo ripete ogni giorno. Il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari è anche più drastico: «Con questo Mes si fa strozzinaggio sui Paesi in difficoltà». Meloni, però, non ha alcuna intenzione di firmare la resa come se fosse una sua scelta imposta ai coraggiosi alleati. La posizione di FdI, illustrata da Raffaele Fitto, non si sposta di un centimetro da quella di sempre: «La questione del Mes si risolve inserendola in uno scenario ampio, con il completamento dell’unione bancaria e il ritorno del patto di stabilità». Una linea che esclude le vie d’uscita indicate da molti in questi giorni, come un qualche ordine del giorno che impegnerebbe qualsiasi governo anche futuro a non attivare il Mes senza prima l’autorizzazione del parlamento. Formula bizzarra perché il problema della riforma si pone proprio nell’eventualità che un Paese e il suo parlamento siano costretti dallo stato dei conti pubblici a chiedere quella attivazione, o a doverla subire.
L’EXIT STRATEGY invocata praticamente da tutti, poi, al momento non esiste. Il rinvio, propaganda a parte, va dunque bene a tutti: a chi la riforma la avrebbe già firmata da un pezzo, cioè a Forza Italia, e a chi vorrebbe non firmarla mai, cioè alla Lega, per non parlare del partito della premier che spinge più di ogni altro sullo slittamento. La stessa data ipotetica di cui si parla, settembre, è davvero solo ipotetica: governo e maggioranza cercheranno di trascinare la questione quanto più a lungo possibile, più o meno sino alla fine dell’anno.
COL VICOLO CIECO però prima o poi bisognerà fare i conti e l’unica via d’uscita sembra essere un segnale europeo che il governo possa impugnare per giustificare la firma senza che appaia una resa. Non fatti, per quelli non c’è tempo, ma parole. Parole però precise. In soldoni una dichiarazione europea che si impegni a rimettere mano alla riforma subito dopo averla approvata con l’obiettivo di completare l’unione bancaria inserendo tra il Meccanismo di risoluzione unico e il ricorso al backstop del Mes il passaggio intermedio, contrastato dalla Germania, dell’Edis, cioè della messa in comune dei rischi del settore bancario. L’obiettivo, data la ferma contrarietà di Berlino, non pare a portata di mano ma già impegnarsi a rivedere subito la riforma e citare la necessità di completare in tempi brevi l’unione bancaria potrebbe fornire al governo l’appiglio per tirarsi fuori dalla palude in cui è immobilizzato. Ma queste sono trattative che richiedono prudenza e diplomazia, non lo sgangherato show di questi giorni. E forse l’ira di Giorgia Meloni si spiega proprio così.
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