È stata una settimana ad altissima intensità nel conflitto tra Hezbollah e l’esercito israeliano nella zona al confine tra il Libano e Israele. Il bombardamento nella notte tra giovedì e venerdì ha certamente alzato l’asticella.

A Deir Qanoun al Nahr, una ventina di chilometri da Tiro, sud del Libano, l’aviazione israeliana ha colpito una palazzina di tre piani uccidendo due donne, Dalal Ezzeddine e Sally Salaiki, paramedico del Amal Movement’s al-Risala Scouts medical association, ferendo altri 19 civili, tra cui molti bambini. Un’altra donna è ancora in terapia intensiva e la figlia di otto mesi è ricoverata. Le testimonianze parlano di un attacco violentissimo «quanto un terremoto».

NON È LA PRIMA VOLTA che i civili vengono presi di mira: dall’inizio del conflitto sono stati uccisi in Libano dall’esercito israeliano 71 civili, 21 medici e tre giornalisti. La risposta di Hezbollah è arrivata venerdì mattina, con l’attacco più importante dall’8 ottobre: nove posizioni israeliane sono state colpite in contemporanea e migliaia di missili sono stati lanciati dal sud del Libano.

Del resto un aumento della tensione era già nell’aria dopo l’uccisione martedì di Taleb Abdallah, uno dei più importanti comandanti di Hezbollah, parte del ristretto consiglio militare della milizia.

Preoccupazione è stata espressa al G7 in Puglia dai leader mondiali per la situazione nel sud del Libano. Giovedì Macron aveva annunciato in Italia un trilaterale Francia-Stati uniti-Israele sulla questione libanese. «Con gli Stati uniti siamo d’accordo sul un trilaterale per incrementare la linea (per la fine delle ostilità) da noi proposta e faremo altrettanto con le autorità libanesi», aveva dichiarato il presidente francese.

La risposta israeliana è stata l’attacco a Deir Qanoun giovedì notte, oltre che un netto rifiuto del trilaterale da parte del ministro della difesa israeliano Gallant arrivato nel nord venerdì. Non solo i raid: dopo le prove dell’utilizzo di fosforo bianco sia in aree rurali che abitate fornite da Human Rights Watch, Israele procede con sistematici incendi del territorio libanese, anche con mezzi medievali come catapulte, come si vede da immagini che circolano sui social.

E la gente scappa: l’Organizzazione internazionale per la Migrazioni calcola in circa 100mila gli sfollati da una parte e altrettanti dall’altra del confine che non hanno una data di ritorno a casa. Sul difficile equilibrio politico del Libano l’escalation pesa. E crescono le polemiche: il parlamento ha approvato dei contributi di 20mila dollari per ogni combattente caduto nella guerra con Israele, oltre all’esenzione delle tasse per alcuni distretti del sud del paese, per un totale di 93 miliardi di lire libanesi (poco più un milione di dollari). Le autorità del sud assicurano: i soldi non sarebbero ancora arrivati.

La parlamentare più attiva dell’opposizione, Ghada Ayyoub delle Forze Libanesi (ultradestra conservatrice cristiana), ha sottoposto al governo una richiesta formale di spiegazioni sulla «legalità della scelta di pagare le famiglie dei combattenti dalle tasche dei cittadini» alla luce di una decisione di Hezbollah di entrare in conflitto e non dello Stato libanese.

CAMILLE CAHMOUN, cristiano maronita a capo del Free National Army, ha minacciato di far scendere in strada «20mila uomini sunniti, drusi e cristiani contro Hebzollah», mentre Sami Jemayel, dei Falangisti cristiani, nipote di quel Bashir che favorì l’invasione israeliana del Libano del 1982, parla di pace: la vogliono i libanesi, dice, ma non Hezbollah. Dichiarazioni che acquistano maggior valore all’interno della devastante crisi economico-finanziaria in cui il paese versa ormai dal 2019.

Il clima è teso, la stanchezza è tanta. La guerra ha aggiunto alla crisi un peso notevole. Interi settori economici si sono fermati, in primis quello agricolo a sud e la sua filiera e quello turistico, una delle fonti primarie di entrate del paese. L’incertezza di un’estensione del conflitto a tutto il Libano è un elemento di fortissima destabilizzazione sociale, ma soprattutto emotiva, in un paese dove le percentuali di disturbi post-traumatici erano già elevatissime: solo negli ultimi cinque anni crisi economica, Covid, esplosione del porto nell’agosto 2020. E ora la guerra.