La grande industria è considerata una fonte sia di lavoro relativamente sicuro sia di inquinamento: il dilemma ambiente-lavoro. La narrazione di un gioco a somma zero tra ambiente e lavoro è stata però criticata come eccessivamente pessimista dalla prospettiva della «transizione giusta», che propone un gioco a somma positiva in cui l’industria viene trasformata per garantire al contempo la sostenibilità ecologica e la qualità dell’impiego. Sotto un altro profilo, tuttavia, la narrazione del gioco a somma zero è troppo ottimista, perché ignora la «deindustrializzazione nociva»: il gioco a somma negativa in cui la perdita di posti di lavoro nelle fabbriche e il degrado ambientale avanzano di pari passo.
Definisco la deindustrializzazione nociva come la deindustrializzazione del lavoro in aree dove industrie significativamente nocive sono ancora in funzione. Gli aumenti della produttività rendono infatti possibile la coesistenza di deindustrializzazione del lavoro e mantenimento – e anche crescita – dell’output manifatturiero. La misura della deindustrializzazione del lavoro è data dall’andamento del tasso d’occupazione nel settore manifatturiero sull’occupazione totale in una determinata area.
Al livello mondiale, secondo le stime Ilostat, il tasso globale d’occupazione nel manifatturiero è lentamente declinato dal 16.4% nel 1991 al 13% nel 2020. Nello stesso periodo, per esempio, le emissioni totali di anidride carbonica sono aumentate da 23 a 36 miliardi di tonnellate annuali secondo il Global Carbon Project. Inoltre, tra il 1991 e il 2018, le emissioni generate dall’industria sono passate da 4,4 a 7,6 miliardi di tonnellate annuali secondo il Climate Analysis Indicators Tool.
Dagli albori del capitalismo, dunque, il tasso globale d’occupazione nel manifatturiero e le emissioni annuali di anidride carbonica sono per lungo tempo aumentati a braccetto ma, nella seconda metà del XX secolo, c’è stata una separazione tra le due serie storiche: il tasso globale d’occupazione nel manifatturiero ha cominciato a scendere, mentre le emissioni di anidride carbonica hanno continuato a salire. Negli ultimi decenni, gli standard ambientali della grande industria sono nel complesso migliorati grazie all’infittirsi delle regolamentazioni, ma questi aggiustamenti tecnici sono vanificati dall’aumento dell’output globale e dalla natura cumulativa del degrado ambientale.
Si sente spesso che le minacce all’occupazione sono dovute ai prodigi automatizzanti delle nuove tecnologie digitali. Tuttavia, Aaron Benanav ha mostrato che il cambiamento tecnologico ha portato negli ultimi decenni alla deindustrializzazione globale del lavoro e a un aumento della sottoccupazione a causa non di aumenti di produttività eccezionalmente alti, ma di una crescita dell’output eccezionalmente bassa. In un’economia a crescita lenta, l’erosione dei posti di lavoro colpiti dal cambiamento tecnologico avanza più rapidamente della creazione di nuovi posti di lavoro a simili condizioni contrattuali e salari relativi. Ma siccome la maggior parte delle persone deve comunque lavorare per vivere, il risultato non è la disoccupazione di massa ma un declino della proporzione di posti di lavoro sicuri e la crescita della precarietà in paesi e settori dove esistevano determinate garanzie.
Il ritorno a un’idealizzata «età dell’oro» del capitalismo industriale è impossibile e indesiderabile, perché la crescita di output necessaria per reindustrializzare il lavoro agli attuali livelli tecnologici sarebbe incompatibile con la riproduzione sostenibile della vita sul pianeta. Ma nemmeno la strategia degli incentivi «verdi» all’investimento privato risolverà i nostri problemi. Come hanno notato Alexis Moraitis e Jack Copley, l’automazione capitalista e la stagnazione economica sono interrelate, perché la corsa alla produzione di più beni in meno tempo finisce per abbassare i prezzi ed esercitare quindi una pressione sui tassi di profitto. Questo indebolisce gli investimenti e porta alla stagnazione. Ne deriva un circolo vizioso di precarietà e degrado ambientale nel tentativo di rivitalizzare gli investimenti.
Una speranza sono piuttosto le mobilitazioni per la redistribuzione della ricchezza (comprese le riparazioni al Sud Globale), la diminuzione dell’orario lavorativo (che ridurrebbe anche il bisogno di nuovi posti di lavoro) e una radicale trasformazione della produzione verso la sostenibilità e la demercificazione (guidata da investimenti pubblici e sociali). La redistribuzione globale della ricchezza è necessaria per rendere il lavorare meno – e meglio – socialmente sostenibile, come misure transizionali «oltre la fine del mondo».