Nenney Shushaidah Binti Shamsuddin, 42 anni, ha fatto la storia in Malesia. Ma ci tiene a mantenere la barra dritta: «Quando sono in aula, non sono una donna, non sono un uomo. Sono un giudice». Lo scorso anno è stata nominata prima donna giudice all’Alta Corte della Shari’a.
Sei anni prima, nel 2010, le prime due donne erano diventate giudice in corti della Shari’a, Rafidah Abdul Razak e Surayah Ramlee. Le prime di una lunga serie: oggi sono 27, su un totale di 160 giudici presenti nei tribunali islamici.
In Malesia il sistema giudiziario è duplice: in parallelo corrono un sistema civile e uno islamico. Se il primo è dedicato ai casi criminali e civili, al secondo spettano quelli legati al diritto di famiglia e alla moralità, che si tratti del consumo di alcol o di poligamia, di prostituzione o custodia dei figli. In un paese a maggioranza musulmana, le corti islamiche sono centrali tanto nella vita quotidiana dei singoli quanto nel definire linee guida che influenzano – in quello che alcuni definiscono un cortocircuito giudiziario – anche la magistratura civile.
La svolta è del 2006: una fatwa ha superato le posizioni tradizionali e conservatrici di alcuni teologi locali secondo cui le donne non possiederebbero l’equilibrio mentale necessario a non farsi influenzare dalle emozioni personali. La fatwa ha invece stabilito che anche le donne posso vestire i panni del giudice di un tribunale della Shari’a. Quattro anni dopo due pioniere si sono sedute sullo scranno di una corte islamica, dieci anni dopo Nenney è stata nominata all’Alta Corte.
«Siamo in grado di lasciare le emozioni fuori – spiega Nenney ad al Jazeera, rispondendo così ai critici che la ritengono incapace di imparzialità – Ho empatia per le donne, mi posso mettere nei loro panni, ma devo svolgere il mio ruolo di giudice, prendere una decisione sulla base del caso in sé. Spero che non ci sia più alcuna differenza nella percezione, tra un giudice uomo o donna. Il giudice deve semplicemente fare il suo lavoro».
Non una mera questione di gender, ma un modo per amministrare la giustizia in modo più equo. Molte delle cause portate di fronte ad un giudice della Shar’ia coinvolgono, ovviamente, delle donne e lo strapotere giudiziario maschile è percepito come un limite serio all’equità delle sentenze: l’obiettivo è garantire la parità delle parti in causa e una maggiore tutela della donna. Una realtà che non coinvolge solo il sistema islamico, ma anche quello civile dove le donne giudice sono pochissime. E non mancano i limiti ufficiali: come denuncia Sisters in Islam, associazione femminile di Kuala Lumpur, alcuni Stati impediscono alle donne di seguire alcuni tipi di casi giudiziari, tra cui quelli per reati che prevedono la pena di morte.
Forse per questo, dall’altra parte dello scranno, si è sviluppata una tendenza opposta: le donne che operano come avvocatesse nelle corti islamiche sono sempre più numerose. Il 40% degli iscritti all’organizzazione Shari’a Lawyers Association, sono donne; in cinque anni si sono registrate 200 avvocatesse in più. Anche in questo caso l’obiettivo è l’imparzialità e la consapevolezza (derivante dalle frequenti denunce di discriminazione) che le donne vengano in molti casi mal rappresentate nei processi islamici, a partire dai casi di divorzio e di custodia dei figli.
Cresce il numero nelle aule di tribunale ma anche in quelle delle università. Ormai i corsi di legge islamica sono seguiti per lo più da ragazze, un trend simile a quello delle altre facoltà: in Malesia il 61,9% degli iscritti all’università è donna. In linea con quanto dettato dal Corano: «L’Islam non solo riconosce la posizione della donna e dei suoi diritti, ma li consacra nella shari’a – spiega il professor Mohamed Azam Mohamed Adil, vice presidente dell’International Institute of Advanced Islamic Studies della Malesia – Studiando l’intero corpo degli insegnamenti islamici, si vede subito che non c’è spazio per la discriminazione delle donne in nome della religione. Le discriminazioni non sono, dunque, giuridiche ma frutto dei costumi di società patriarcali»