Nel suo Chiari del bosco, Maria Zambrano dedica un’ampia sezione alle «parole». Ne racconta la traiettoria, l’apparire, il loro essere state perdute o derubate quando non custodite o improvvisamente ritrovate. Nella mirabile radura che la filosofa spagnola ci offre, c’è infine un passo che assimila il modo di nascondersi della parola al seme. Come una radice nascosta, aggiunge, quando cresce e fa avvertire tutto il pulsare di vita. Questo preciso luogo simbolico di perdita che si trasforma in una cova terrestre della parola lo avverte solo chi ha patito «in modo indicibile per essere stato abbandonato da essa». È interiore, questa parola, rivela uno spazio dilatato di cui, per esempio, si fa esperienza nella poesia come lavoro del silenzio, nella scrittura come orientamento, nell’arte come possibilità di visione dicibile.

NEL CARICO di questa minuta connessione si può leggere Preghiera di donne (Il melangolo, pp. 178, euro 18), un volume a cura di Isabella Adinolfi e Giancarlo Gaeta che, oltre ai loro stessi saggi, ospita gli interventi preziosi di Maria Concetta Sala, Paolo Bettiolo, Anna Foa, Laura Boella e Lucetta Scaraffia. Più di un libro, è una bussola che accompagna al confronto con la pratica della preghiera, intesa a un tempo nella sua accezione religiosa ma anche spirituale, rituale e ancora di domanda tutta umana. Numerosi sono infatti i paraggi entro cui si muove quella «parola interiore» tanto ben definita da Zambrano con cui si fanno i conti in altrettanti e differenti modi.

Vanno a intrecciarsi così le esistenze di Simone Weil, Etty Hillesum, Cristina Campo, Serena Nono, Catherine Pozzi, Chandra Livia Candiani, Edith Stein e Adrienne von Speyr, esplicitando la stoffa complessa entro cui si muovono, ciascuna nel proprio materiale contesto, sia esso storico, relazionale oltre che di tensione verso qualcosa che annuncia, arriva e viene assunto con dedizione. Sono voci che trasformano l’insufficienza del mondo nel verso di una rigenerazione possibile, sia essa la «poesia geroglifica» di Campo o l’«altissimo amore» di Pozzi, attraversando le oranti di Nono. Stanze dell’attesa e del senso ridisegnano prevaricazioni e traumi del Novecento. Significante o, più spesso, significato, Dio è centrale ma solo se si può dire in molti modi, come l’essere, fino a diventare interlocuzione prediletta, esclusiva.

È, nelle riflessioni e nelle immagini create da scrittrici e poete, languore sia mistico che di libertà. Lo descrive altrettanto bene Fernanda Romagnoli, nata e vissuta a Roma e maestra elementare le cui poesie hanno visto la luce tra il 1943 e il 1980, ora raccolte per Internopoesia in La folle tentazione dell’eterno (a cura di Paolo Lagazzi e Caterina Raganella, con una nota filologica di Laura Toppan e Ambra Zorat, pp. 231, euro 15). Quando, per esempio, ci consegna il significato di praticare la preghiera, si comprende come quella parola di Zambrano che è seme nella terra possa germogliare solamente «con questo corpo». Prosegue Romagnoli nel dire quali perimetri possieda il suo: «con questo muratore senza tetto/ con questo domatore di demòni/ con questo letto di vene/ con questa miniera accecata/ che invoca barlumi,/ con questo informe mugolìo di fiamma/ che tenta canzoni». Camminare dentro lo sprofondo assume allora «forma umana» là dove Romagnoli riconosce la cruna del tempo che scorre, nella malattia come nella ricerca di sé, dalla propria infanzia all’arsura «così smaniosa/ di mari e di ginestre» appellandone l’anima incarnata: «tu profuga,/ tu reietta, intoccabile. Tu transfuga/ dal soffio dell’origine./ Non ti spetta razione, né coperta,/ né foglio di reimbarco./ Per registri e frontiere/ non esisti».

E DELL’ETERNO, invece, cosa sappiamo? Cosa possiamo esplorare di quel salto che peregrina tra la luce dell’alba e la notte che si vorrebbe assassinare? Ne accenna Lagazzi nella prefazione al volume, indicando una strada possibile entro cui convocare Dio come «tu» della visione, come tentazione di assoluto, come crasi temporale entro cui si genera l’istante che svetta oltre il quotidiano passare. Se digiuno e meditazione mettono a rischio l’espandersi della parola, poiché qualsiasi seme nella terra ha necessità di essere curato, per Cristina Morales è ancora una volta la dedizione alla scrittura che affonda nelle radici di una esistenza consentendole di splendere. È ciò che capita nel suo Ultime sere con Teresa D’Avila (Guanda, pp. 199, euro 18, traduzione di Roberta Arrigoni, prologo di Juan Bonilla), un romanzo in cui la mistica carmelitana si espone attraverso il proprio diario intimo.

La circostanza da cui scaturisce l’invenzione letteraria di Morales è veritiera, ovvero il soggiorno che nel 1562 Teresa D’Avila trascorre nel palazzo di Luisa De la Cerda, rimasta vedova da poco, ciò che però viene a costruirsi è l’eventualità di un riavvolgimento, di una nuova rivelazione che non sia quella che conosciamo già della sua vita.

CRISTINA MORALES ci conduce infatti nell’osservazione di una parabola esplicitamente femminista, in cui l’apprendistato di una donna sorveglia tanto i suoi bisogni elementari quanto le sue esigenze sofisticate. Protagonista di queste pagine è dunque il desiderio, con il distacco che si deve al racconto di una sua anatomia politica in prima persona, spirituale e dunque erotica. Scopriamo i recessi che l’afflato mistico ha procurato in Teresa D’Avila, quando la storia parte da una domanda precisa: «Devo scrivere per fare contento il padre confessore, per fare contenti i grandi uomini di studio, per fare contenta l’Inquisizione o per fare contenta me stessa?». Consapevole dell’ingiustizia cui le macerie della sua contemporaneità intenderebbero inchiodarla, la incrociamo assorta nella sua attenzione, allo stesso modo di quando prega.

C’è tuttavia un ultimo elemento che va a completare ciò che si deve alle parole. Perché, nel nominare la miseria umana, sembrano segnate da una costante capacità di mostrarsi nella fiducia sintetica verso la relazione – quest’ultima nel doppio passo tra il senso e il significato, e al contempo tra la struttura di un testo e il suo carattere di perenne apertura. Accade questo in Forte come la morte è questo amore, un volume di Teresa Forcades (Castelvecchi, pp. 220, euro 19.50, a cura di Cristina Guarnieri, nella traduzione di Roberta Arrigoni e Maria Chiarappa) che si suddivide in otto lezioni sul Cantico dei cantici.

A una simile altezza, il seme di Zambrano percorre terre tanto sconosciute quante sono qui le brecce interne al testo biblico. Si tratta di un eros umano, tra due creature che amano, e l’accesso a quel «castello» che Forcades saggiamente ricorda nella immagine restituitaci proprio da Teresa D’Avila quando a sostenere lo spazio sconfinato della vicinanza con Dio.

Le parole di cui si costituisce la scrittura, quelle cioè che si acquattano smisurate dentro di sé, mutano nella stoffa sontuosa di un Cantico che esorta nei suoi versi all’affrancamento dall’oppressione, perché questo è in effetti l’amore, è la regione di un periglioso incontro, privo di aspettative che non arretra dalla libertà degli amanti ma anzi la disarciona a ogni contatto. Il seme zambraniano che si nasconde nella terra, come le parole, può dunque svellere ciò che è di ostacolo, custodendo e respirando attraverso le scritture delle donne che costantemente inventano mondi. Poco importa siano ulteriori o questo che abitiamo già.