La coscienza occidentale all’ombra dei Saud
Dopo gli attentati di Parigi Il governo saudita sta giocando col fuoco. Commette da anni lo stesso errore di calcolo in cui sono caduti gli americani quando finanziarono e armarono contro l’Unione Sovietica i mujaheddin poi spodestati dai Talebani
Dopo gli attentati di Parigi Il governo saudita sta giocando col fuoco. Commette da anni lo stesso errore di calcolo in cui sono caduti gli americani quando finanziarono e armarono contro l’Unione Sovietica i mujaheddin poi spodestati dai Talebani
Una volta elaborato il lutto, una volta eliminati i responsabili dell’eccidio parigino, che fare delle altre migliaia di adepti al jihad?… Intendendo ovviamente il jihad offensivo, non quello interiore di superamento di se stessi. Mi è capitato di recente di attraversare a piedi il 19°mo Arrondissement di Parigi. Per una buona mezzora mi pareva di esser tornato ad Algeri: strada dopo strada nient’altro che negozi, volti e vestiti di umili maghrebini. Umili e gentili, almeno per il momento.
Su internet scopro ora che il quartiere è bollato come dangereux: a me non sembrava pericoloso per me quanto per loro, visto che le vittime del fanatismo sono al 95% musulmane. (Mi è capitato anche di attraversare il quartiere ebraico nel Marais e chiedere un’informazione stradale: l’unica risposta è stato un mugugno accompagnato da un’occhiata torva. Ma questa è un’altra storia).
L’Isis, trovandosi in difficoltà sul proprio territorio, ha avviato il piano B: lanciare cani sciolti all’attacco del cuore metropolitano dell’Occidente. Questi jihadisti potranno sempre contare sulla simpatia – se non sulla connivenza – di tanti loro confratelli residenti nelle periferie disagiate d’Occidente.
Che faremo allora? Punteremo droni e missili contro le nostre metropoli? Iniziamo, invece, a scandagliare la profondità della frustrazione in cui si dibattono le comunità arabo-musulmane. Iniziamo a sostenere l’aspirazione di chi propugna – se non un Califfato – almeno un’esegesi moderna dei sacri testi, dopo otto secoli di deserto teologico e il colpo finale inferto da Ataturk nel 1924 con la destituzione della khalifa (forse ci penserà Erdogan, ora che ha stravinto le elezioni, a ricoprire la sede vacante una volta eliminato al-Baghdadi…).
Se la Chiesa ha percepito l’urgenza di aggiornarsi con un Concilio nel 1962 – ed era il 21° della sua storia – «aggiornamento» dovrebbe a maggior ragione diventare la parola d’ordine dell’Islam. Perchè da secoli ormai le scuole coraniche – dal Marocco al Bangladesh – non fanno che insegnare a ripetere, alla lettera e in una lingua sconosciuta, brani di un testo del VII° secolo: da cui espungono parole come rahme (misericordia) e gafara (perdono) – ricorrenti nel Corano più volte che nella Bibbia – a vantaggio di parole come harb (guerra) o come thar (vendetta).
I miliziani dell’Isis praticano esecuzioni rituali non solo per asseverare la radicalità dei loro principi, ma soprattutto per sfidare i «crociati» a singolar tenzone e attirarli sul terreno militare. Precisano anche dove: a Dabiq, un villaggio nella piana a nord di Aleppo a pochi chilometri dalla frontiera turca; là si daranno battaglia decisiva le forze del bene e del male. E per confondere ancor più le idee, ci dicono che a guidarli alla vittoria sarà il secondo profeta più riverito dell’Islam, Gesù.
Tempo fa attraversavo Dabiq in direzione della Turchia e mi pareva che i poveri agricoltori locali ignorassero tutto del giorno fatidico in cui saranno risvegliati dal clangore di cozzanti scimitarre e vedranno i loro campi arrossarsi di sangue impuro. C’è poco da sorridere… I parigini che nei giorni scorsi intonavano il refrain della Marsigliese reclamavano qu’un sang impur abreuve nos sillons! («che un sangue impuro irrighi i nostri solchi»).
Ad ottobre, in coincidenza con i primi raid russi in Siria, 55 esponenti religiosi e accademici sauditi hanno pubblicato un appello ai «veri musulmani», scongiurando di «fornire aiuto morale, materiale, politico e anche militare» a chi combatte in Siria contro il regime alauita (e contro Russia e Iran che lo sostengono).
Si riferivano ai miliziani dell’Isis, definiti «guerrieri santi che stanno difendendo l’intera nazione islamica». I firmatari dell’appello al jihad offensivo lo giustificavano con queste parole: «Se i santi guerrieri venissero, Dio non voglia, sconfitti, le nazioni sunnite cadrebbero una dopo l’altra».
Per il momento, a cadere è stato un aereo russo con 224 turisti innocenti (e un cacciabombardiere sempre russo abbattuto dagli F-16 degli «alleati» turchi).
Un diplomatico libanese mi ha raccontato di aver chiesto a dei funzionari sauditi come mai il governo di Ryad consentisse ad esponenti religiosi di perorare la causa della guerra ad oltranza. La risposta è stata: che vuole, caro amico, si tratta di persone influenti e libere di predicare. Il problema è che nella penisola arabica questa libertà di parola viene punita – all’occorrenza – con 1000 colpi di frusta somministrati 50 alla volta, se è il blogger saudita Raif Badawi a voler parlare.
Il governo saudita sta giocando col fuoco. Commette da anni lo stesso errore di calcolo in cui sono caduti gli americani quando finanziarono e armarono contro l’Unione Sovietica i mujaheddin poi spodestati dai Talebani. Fin dall’inizio il neo-califfo Abu Bakr al-Baghdadi invitava i suoi emissari in Arabia Saudita a combattere anzitutto «gli sciiti e i sulul (i difensori della monarchia saudita), prima di attaccare i salibi (i crociati, ossia i cristiani)».
I sauditi giocano col fuoco, anche perché l’autosufficienza energetica conseguita da Obama ha disinnescato il terribile ricatto che vincolava Washington al petrolio di Ryad.
È stato uno dei grandi successi, inseguito con forza da sette anni, di questo lungimirante presidente. D’ora in poi Congresso e Casa Bianca – com’è accaduto in questi giorni – forniranno armi a Ryad solo se lo vorranno, non per imposizione degli amici di Bush.
E in questi flussi e riflussi di alleanze e di inimicizie, anche Turchia e Israele stanno giocando col fuoco. La Turchia perché ha favorito alla grande il transito verso il fronte di giovani «idealisti» votati al martirio. Quanto a Israele, l’inedita vicinanza all’Arabia Saudita voluta da Netanyahu il «cinico» finirà come finì nel 1979 la cinica alleanza di ferro con lo Scià di Persia: male.
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