La condanna a Mimmo Lucano piomba nel mezzo delle battute finali della campagna elettorale per la Regione Calabria. L’ex sindaco di Riace è capolista in tutte le circoscrizioni di «Un’altra Calabria è possibile», una delle sei liste che sostiene la corsa alla presidenza di Luigi De Magistris. Quest’ultimo si schiera dalla parte di Lucano, lo descrive come «un uomo giusto, un simbolo di umanità e di fratellanza universale». «Gli ultimi passi verso la vittoria e verso la liberazione della Calabria, li compiremo proprio da Riace – prosegue – per abbracciare e sostenere ancor di più un uomo che è l’antitesi del crimine. La storia dell’umanità insegna che non sempre la giustizia coincide con la legalità».

A De Magistris risponde a muso duro Nino Spirlì, che senza essere stato eletto, da vicepresidente nominato dalla poi defunta Iole Santelli, da un anno è governatore facente funzioni della Regione. Secondo Spirlì, De Magistris «cerca di dare lezioni di etica e morale, scegliendo come compagno di viaggio un truffatore, componente di un’associazione a delinquere e favoreggiatore dell’immigrazione clandestina. È doveroso che l’uomo che per anni è stato il beniamino di tutto il Pd e di tutta la ’sinistra sinistra’, e per il quale la Rai, sempre di sinistra, aveva addirittura prodotto, a suon di milioni di euro, una fiction inutile la quale, ora più che mai, sarà materiale da buttare nel cesso, si ritiri dalla contesa elettorale».

Sulla vicenda di Lucano si pronunciano i due candidati che provengono dal centrosinistra. Uno è l’ex presidente Mario Oliverio, che corre contro i suoi ex compagni del Pd. «Rimango attonito ed incredulo» afferma Oliverio, sottolineando che la storia di Riace e il laboratorio di accoglienza che ha ospitato «non possono essere cancellata da una sentenza di condanna che appare spropositata». La candidata di Pd e Movimento 5 Stelle Amalia Bruni è più fredda: «Le sentenze non si commentano, si rispettano», dice. Anche se si dice «dispiaciuta dal punto di vista umano».

Solo pochi giorni fa un gruppo di intellettuali calabresi aveva firmato un appello a sostegno della candidatura di Lucano. Si invitava a votarlo «perché la sua presenza in consiglio regionale sarebbe di per sé speciale, dirompente e consentirebbe di mettere in moto con più energia le forze interessate alla trasformazione sociale e politica della Calabria». Quello di Lucano, sostengono i firmatari, «sarebbe un servizio utile a tutti i cittadini, con una attenzione particolare agli ‘ultimi’, agli ‘invisibili’ e ai ‘non garantiti’ nei propri diritti».

Tuttavia la sentenza di ieri mette una seria ipoteca sulla possibilità che Lucano possa sedere in consiglio regionale e da lì continuare le sue battaglie. Il Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità, la cosiddetta legge Severino, prevede la sospensione e la decadenza dalle cariche per i condannati per i reati contro la pubblica amministrazione anche in via non definitiva.

Tra le fattispecie previste c’è l’abuso d’ufficio contestato a Lucano ma il tribunale, pronunciando la sentenza di colpevolezza, lo ha ridefinito in «truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche». Un reato, questo, che non è previsto tra quelli per i quali scatta la sospensione. Non lo è nemmeno l’associazione a delinquere per cui l’ex sindaco di Riace è stato condannato: la Severino richiede che si tratti dell’articolo 416 bis, ovvero l’associazione di stampo mafioso. Lo è però il peculato. Per questo la rete che si è stretta attorno a Lucano per un’altra Calabria rischia di rimanere senza portavoce nelle istituzioni. Almeno fino al secondo grado di giudizio.