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La cieca compiacenza del mondo prepara solo nuovo odio

La cieca compiacenza del mondo prepara solo nuovo odioIn piazza per la Palestina a Parigi – Ap

Lettera aperta Signor presidente Emmanuel Macron, Le scrivo da un luogo che viene aggredito, violato, devastato. Ma può darsi che da questo momento – nel quale noi qui viviamo un sentimento di […]

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 1 novembre 2023

Signor presidente Emmanuel Macron, Le scrivo da un luogo che viene aggredito, violato, devastato.

Ma può darsi che da questo momento – nel quale noi qui viviamo un sentimento di impotenza e annichilamento – possa scaturire qualcosa di utile per chi, come lei, si trova a maneggiare equazioni esplosive che sfidano i limiti della propria stessa onnipotenza.

Le scrivo perché la Francia è membro del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e la sicurezza del mondo è a rischio. Le scrivo in nome della pace.

L’orrore che la popolazione di Gaza sta subendo – con il beneplacito di gran parte del mondo – è un abominio che bene esemplifica la sconfitta senza nome della nostra storia moderna. La vostra e la nostra. Libano, Iraq e Siria sono ormai in rovina. La Palestina viene dilaniata e fatta a pezzi secondo un piano perfettamente chiaro: la sua annessione. Per rendersene conto basta guardare le mappe.

Il massacro da parte di Hamas di centinaia di civili israeliani il 7 ottobre non è stato un atto di guerra: è stata un’ignominia. Non ci sono parole per descriverne la portata. Se molti arabi o musulmani esitano a denunciarne la barbarie, è perché la loro storia recente è disseminata di carneficine di ogni tipo e l’umiliazione e il senso di impotenza hanno infine esaurito le loro riserve di indignazione, imprigionandole nel risentimento.

La loro memoria è tormentata dai massacri, a lungo ignorati, commessi dagli israeliani sui civili palestinesi per impadronirsi della loro terra. Penso a Deir Yassin nel 1948 e a Kfar Qassem nel 1956. Essi sono anche convinti – e io condivido questa convinzione – che la presenza di Israele nella regione e i mezzi brutali utilizzati per garantirne il dominio e la sicurezza abbiano ampiamente contribuito allo smembramento e al collasso generale della loro società. Il colonialismo, la politica di repressione violenta e il regime di apartheid di Israele sono fatti innegabili. Perseverare nella negazione significa alimentare le fiamme del conflitto.

Sappiamo tutti che l’islamismo estremista si è abbondantemente nutrito di questa ferita aperta, in un’area che non a caso viene chiamata da tutti «Terra Santa». Vorrei ricordare che Hezbollah è nato in Libano subito dopo l’occupazione israeliana del 1982 e che le disastrose Guerre del Golfo hanno dato un impulso fatale al fanatismo religioso nella regione.

Che gran parte degli israeliani sia ancora traumatizzata dall’abominio della Shoah, e che questo debba essere un fattore preso in considerazione, è ovvio. Che lei, signor Presidente, sia impegnato nella prevenzione di atti antisemiti in Francia è altrettanto giusto. Ma il fatto che lei sia arrivato al punto di non vedere più ciò che accade altrove, e al punto di negare una sofferenza con il pretesto di curarne un’altra, non contribuisce certo alla pace.

Per quanto tempo ancora le autorità francesi e tedesche continueranno a attingere alla paura del popolo ebraico come rimedio per le proprie colpe? Non è più tollerabile assumersi la responsabilità di un passato odioso scaricandone il peso su chi non ha nulla a che fare con esso. Ascoltate piuttosto i dissidenti israeliani che mantengono alto il proprio onore. Molti di loro vi stanno avvisando, da Israele agli Stati uniti.

Cominciate voi, a nome dell’Europa, a chiedere l’immediata sospensione dei bombardamenti su Gaza. Non indebolirete Hamas né proteggerete gli israeliani permettendo che la guerra vada avanti. Usate la vostra voce non solo per la creazione di corridoi umanitari, sulla scia della politica statunitense, ma soprattutto per un appello alla pace!

Le sofferenze patite dai palestinesi da decenni non sono più sostenibili. Smettete di dare un assegno in bianco a una politica israeliana che sta spingendo tutti, compresi i suoi cittadini, contro il muro. Quando nel 2018 gli Stati uniti hanno riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele, lei non ha battuto ciglio. Non era solo un insulto alla storia, era una bomba a orologeria.

La sua missione era difendere il buon senso sostenuto da Germaine Tillion: «Una Gerusalemme internazionale, aperta ai tre monoteismi». Quello stesso anno ha appoggiato l’adozione da parte della Knesset della legge fondamentale che definisce Israele «lo Stato-nazione del popolo ebraico». Non ha pensato, almeno per un attimo, al 21% degli israeliani che non sono ebrei?

Un anno dopo, signor Presidente, lei dichiarò che «l’antisionismo è una delle forme moderne di antisemitismo». E così aveva chiuso il cerchio. Con una semplice formula, ha messo una croce su tutte le sfumature, fingendo di non sapere che, da Isaac Breuer ad Albert Einstein, un gran numero di straordinari pensatori ebrei furono antisionisti. Così facendo, lei ha smentito tutti quelli di noi che si battono contro l’antisemitismo senza abbandonare i palestinesi.

Ha ignorato la lunga strada che abbiamo percorso – dal punto di vista del cosiddetto «antisionismo» – per cambiare il nostro vocabolario, per riconoscere Israele, per immaginare un futuro che tenga conto di un passato condiviso. L’ondata di odio che circola sui social network, rivolta all’una o all’altra parte, non le impone forse, come leader, di essere ancora più vigile nell’uso delle parole e nella formulazione delle frasi? A proposito di pace, signor Presidente, siamo rimasti sbalorditi dall’assenza di questa parola nei suoi discorsi all’indomani del 7 ottobre. Cosa cerchiamo, se non la pace, in un momento in cui il pianeta costeggia l’orlo del precipizio?

Gli «Accordi di Abramo» hanno segnato il trionfo del disprezzo, dell’arroganza capitalista e della malafede politica. È accettabile ridurre la cultura araba e islamica a succulenti contratti accompagnati – con l’appoggio passivo della Francia – da accordi di pace gestiti come se fossero operazioni immobiliari?

Il progetto sionista ha raggiunto un vicolo cieco. Aiutare gli israeliani a uscirne richiede un immenso sforzo di immaginazione e di empatia che è l’opposto del cieco compiacimento. Garantire la sicurezza del popolo israeliano significa aiutarlo a pensare al proprio futuro, ad anticiparlo, e non a fissarlo da uno specchietto retrovisore che distrae dalla propria buona coscienza.

Qui in Libano non siamo riusciti a far sì che vivere e convivere siano la stessa cosa. Colpa nostra? In parte sì. Ma non solo. Qui il progetto era l’opposto di quello israeliano, che ha costantemente manovrato per renderlo impossibile, per dimostrare il fallimento della coesistenza, per incoraggiare la frammentazione delle comunità e i ghetti. Ora che tutta questa parte del mondo è in crisi, non è forse giunto il momento di fare tutto in modo diverso? Solo una reinvenzione radicale della nostra storia può riaprire un varco verso l’orizzonte.

Nel frattempo, la situazione peggiora di giorno in giorno: non c’è più spazio per le dichiarazioni indignate e gli appelli umanitari. Vogliamo l’azione. Tornate alle regole fondamentali del diritto internazionale. Cominciate a chiedere l’applicazione delle risoluzioni dell’Onu. Smettetela di sostenere il nazionalismo religioso da un lato e di denunciarlo dall’altro. Combattete entrambi. Rompete questa atmosfera malsana che fa sentire impotenti e di troppo i francesi di fede musulmana.

Ascoltate Nelson Mandela: «Sappiamo perfettamente che la nostra libertà è incompleta senza quella dei palestinesi», disse senza mezzi termini. Sapeva che dall’umiliazione non può che nascere l’odio. I neri del Sudafrica venivano chiamati «animali» dai bianchi. E così i nazisti chiamavano gli ebrei. È possibile che nessuno di voi abbia denunciato pubblicamente l’uso di questa parola da parte di un ministro israeliano nei confronti del popolo palestinese? Non è forse giunto il momento di servirsi della memoria nel modo più sano, invece di cedere alle emozioni primitive? E se l’immenso dolore provato da tutti in questa regione potesse essere l’innesco per l’inizio di una determinazione condivisa a fare le cose in modo diverso? E se improvvisamente capissimo, per puro sfinimento, che basta poco per fare la pace, così come basta poco per iniziare una guerra? Siete sicuri di aver esplorato tutto il «poco» necessario per la pace?

Conosco molti israeliani che, come me, sognano un movimento di riconoscimento, un ritorno alla ragione, una convivenza pacifica. Siamo solo una minoranza? Qual era la percentuale di combattenti nella resistenza francese durante l’occupazione?

Non seppellite questo movimento. Incoraggiatelo. Non cedete alla paura. Non è più solo una questione di libertà. Si tratta di un «poco» di equilibrio e di chiarezza politica, senza i quali la stabilità globale potrebbe essere minata.

traduzione di Gennaro Serio

Dominique Eddé è una scrittrice francofona residente in Libano, ha scritto diversi libri e ha tradotto in francese Edward Said. Questa lettera aperta indirizzata a Emmanuel Macron è stata pubblicata dal quotidiano di Beirut L’Orient-Le Jour, che gentilmente ci ha concesso di tradurla, in occasione del recente viaggio del presidente francese a Tel Aviv.

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