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La campagna d’Egitto dei boss del fossile italiano

La campagna d’Egitto dei boss del fossile italiano

Dossier Nel paese di al-Sisi c’è la più grande riserva di gas dell’Eni (15 miliardi di metri cubi all’anno). Difficile che certi affari agevolino discorsi sui diritti umani

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 10 novembre 2022

La scelta di tenere la COP27 in Egitto è stata contestata da più parti e per ovvie ragioni: è sotto gli occhi di tutto il mondo la brutalità del regime del generale Abdel Fattah al-Sisi, che governa il Paese con il pugno di ferro dal 2014. Non deve poi sfuggire come il governo de Il Cairo dipenda in maniera massiccia dai ricchi proventi derivanti dal comparto fossile. Difficile, quindi, che al vertice di Sharm el-Sheik i negoziatori egiziani possano intraprendere iniziative virtuose per la tutela del clima – non che con la crisi attuale la cosa sembra dispiacere i membri del G20.

MA IL «BENESSERE» dell’industria estrattiva del Paese del Nilo è legato anche ai fruttuosi affari con società e istituzioni del mondo occidentale, con l’Italia in primissima fila. All’interno dell’Unione europea, noi siamo il primo partner commerciale dell’Egitto e il quinto a livello globale, oltre a essere il secondo Paese di destinazione delle merci egiziane.

DUE BIG DEL SETTORE FOSSILE, Eni e Snam, la principale banca italiana, Intesa Sanpaolo, e l’assicuratore pubblico nostrano, Sace, spiccano per i loro rapporti più che privilegiati, come spiega il rapporto appena lanciato da ReCommon La campagna d’Egitto – Gli affari dei «campioni» italiani con il regime di al-Sisi. Proprio l’Egitto è il Paese nel quale si trova il volume maggiore delle riserve di gas di Eni, oltre il 20 per cento del totale.

La produzione della principale multinazionale energetica italiana, partecipata dallo Stato, rappresenta il 60 per cento del totale nazionale egiziano, per una cifra complessiva di 15 miliardi di metri cubi l’anno. Il cane a sei zampe ha incamerato ben 5,2 miliardi di euro di utili netti negli ultimi cinque anni, che pesano per circa un terzo sugli utili complessivi della divisione Esplorazione e Produzione (E&P) del gruppo. Solo inizialmente l’Eni ha fatto sentire la sua voce in merito alla barbara uccisione di Giulio Regeni, per poi tornare senza troppe remore al business as usual, in quel momento rappresentato dalla scoperta dell’ingente giacimento di Zohr, che si stima possa custodire fino a 850 miliardi di metri cubi di gas.

MA IL PUNTO DI SVOLTA DELLE RELAZIONI tra l’Eni e il governo egiziano si era già avuto nei primi mesi dell’avvento al potere di al-Sisi. In quel momento la società italiana era tra le più esposte alla crisi egiziana, con crediti scaduti di circa un miliardo. Nel marzo del 2015 l’accordo siglato tra le due parti ha previsto nuovi investimenti da parte di Eni per 5 miliardi di dollari in cambio di termini contrattuali molto favorevoli, tra cui il raddoppio del prezzo a cui l’Egitto acquista il gas dal cane a sei zampe e numerose licenze su tutto il territorio nazionale. Di lì a poco l’Eni scoprirà il già citato Eldorado del gas di Zohr e nel giro di qualche anno i debiti contratti dallo Stato egiziano risulteranno azzerati.

SNAM, IL PIÙ GRANDE OPERATORE del sistema di trasporto del gas in Europa e come Eni partecipato al 30 per cento dallo Stato italiano, ha invece da circa un anno acquistato il 25 per cento della East Mediterranean Gas Company (Emg), proprietaria del gasdotto Arish-Ashkelon tra Israele ed Egitto, anche noto come Gasdotto della pace. Infrastruttura sicuramente strategica per gli scambi energetici tra i due paesi e nodale per le mire del Generale al-Sisi, ma anche opaca nella sua composizione societaria, su cui pendono ombre pericolose.

GLI ANALISTI DEL SETTIMANALE BRITANNICO The Economist hanno descritto la Emg come «uno special purpose vehicle registrato nei Paesi Bassi e creato nei primi anni Duemila da Hussein Salem, un businessman con legami molto stretti con l’establishment della sicurezza, e Yossi Meiman, a capo del gruppo israeliano Merhav Group». Tra i soci della Emg, l’unica società menzionata da Snam è la Emed, che sarebbe controllata dalla Sphynx (sfinge, in italiano). In base alle visure eseguite da ReCommon, questa sarebbe al 100 per cento controllata dalla East Gas, il cui amministratore delegato sarebbe Mohamed Shuib, ex vice-direttore del Gis, i servizi segreti egiziani.

MA LE INFORMAZIONI SULL’INTRICO societario sono difficili da reperire, motivo per cui l’associazione chiede alla Snam di fare chiarezza sulla possibile presenza di oscuri legami con il mondo delle spie egiziane e altri portatori di interesse nascosti. Tutti questi investimenti infrastrutturali vengono attuati grazie agli istituti di credito e alle istituzioni finanziarie. In prima fila c’è Bank of Alexandria, la sussidiaria locale del primo gruppo bancario italiano, Intesa Sanpaolo. Partecipata anche dallo Stato egiziano, Bank of Alexandria si vanta di essere il canale privilegiato per gli investimenti italiani nei settori strategici per l’Egitto, in primis il comparto oil&gas e quello dell’acquisto di armi, tanto «caro» al regime.

COME GARANTE FINANZIARIO di queste «corpose» relazioni troviamo Sace, l’assicuratore pubblico italiano controllato dal ministero dell’Economia e delle Finanze, la cui esposizione storica nei confronti del regime egiziano supera i 4 miliardi di euro. L’importanza rivestita dall’Egitto nel portafoglio di Sace si evince dalle due operazioni di garanzia di primissimo piano rilasciate per la Middle East Oil Refinery (Midor) e l’Assiut Oil Refinery (Aor), entrambe in capo all’azienda petrolifera di Stato. La prima, situata nei pressi di Alessandria a circa due chilometri dal Mar Mediterraneo, si posiziona tra le prime dieci raffinerie del continente africano. Per la sua realizzazione, Sace ha garantito per un ammontare di 1,2 miliardi di euro, mentre per Assiut l’importo era leggermente superiore: 1,32 miliardi di euro. Per entrambe le opere a beneficiare della garanzia è stata anche l’italiana Cassa Depositi e Prestiti (Cdp, altro soggetto pubblico).

RIFERISCONO ALCUNE FONTI giornalistiche che per il progetto di Assiut Cdp avesse forti remore dovute al caso Regeni – e in seconda battuta per gli impatti ambientali della raffineria. Scrupoli che la Sace non ha mai avuto, tirando dritta per la sua strada e continuando di fatto a rafforzare il florido settore fossile del regime di al-Sisi.

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