La battaglia di Rezai Hussain per «costruire» il suo Paese
Afghanistan Il creatore della Fondazione intitolata a Najiba Bahar, che «connetteva» il Daikundi al resto del mondo. Una carriera all'insegna della lotta alla corruzione, è riuscito a fuggire in Italia grazie a un giornalista con cui aveva collaborato
Afghanistan Il creatore della Fondazione intitolata a Najiba Bahar, che «connetteva» il Daikundi al resto del mondo. Una carriera all'insegna della lotta alla corruzione, è riuscito a fuggire in Italia grazie a un giornalista con cui aveva collaborato
La provincia di Bamyan in Afghanistan, resa tristemente famosa dalla distruzione dei Budda da parte dei talebani nel 2001, e casa degli hazara – una minoranza etnica perseguitata – è anche un luogo di idealismo e eroismo che ridanno fiducia nell’umanità. Rezai Hussain, evacuato dall’aeroporto di Kabul dalle forze armate italiane la notte del 30 agosto 2021, e la sua fidanzata Najiba Bahar, uccisa dai talebani il 24 luglio 2017, ne sono un esempio.
REZAI SI È LAUREATO in sociologia e filosofia all’Università di Kabul nel 2012. Dopo aver brevemente lavorato per un giornalista italiano, si è dedicato a una carriera all’insegna della lotta alla corruzione. In un primo momento ha lavorato per l’USAID (L’agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale), per poi entrare nel neonato Anti-Corruption Monitoring Committee (MEC), un sistema innovativo per monitorare i progressi fatti nella battaglia alla corruzione, finanziato da America, Gran Bretagna, Danimarca e Norvegia. Al suo interno, Rezai ha avuto un ruolo cruciale nel limitare la corruzione nella sanità afghana. Otto anni dopo è stato nominato direttore dell’Ufficio dell’Ombudsperson del presidente Ashraf Ghani, nato anch’esso per combattere la corruzione.
REZAI E NAJIBA BAHAR si sono conosciuti online nel 2015, e come vuole la tradizione in Afghanistan lui ha chiesto la sua mano. Il matrimonio si sarebbe dovuto celebrare nell’estate del 2017, dopo il rientro di Najiba dal Giappone dove aveva frequentato un master in computer science grazie a una borsa di studio. Il desiderio di Najiba era servire il suo paese, lavorando per il Ministero delle miniere e del petrolio. Ma il 24 luglio 2017 un attentato suicida sul bus che trasportava lo staff ha ucciso Najiba e altre 31 persone, fra cui altri 16 dipendenti del Ministero. Dopo due anni di lotta con il trauma e il lutto per aver perduto la sua fidanzata, Rezai ha deciso di fondare la Najiba Foundation (www.najibafoundation.org), in memoria della sua amata e per poter realizzare quelli che erano i suoi sogni. Grazie alla generosità di persone dentro e fuori l’Afghanistan, il progetto della Fondazione è stato un successo. Ha potuto dotarsi di una biblioteca, ha creato una squadra femminile di pallavolo, istituito un programma di borse di studio per ragazze e costruito un laboratorio informatico che offriva corsi online e consentiva agli studenti del Daikundi di connettersi al resto del mondo.
MA ANCORA UNA VOLTA i talebani hanno interferito con i piani di Rezai: tre giorni dopo la presa della Provincia del Daikundi hanno saccheggiato la Najiba Foundation, impadronendosi della strumentazione e obbligando gli impiegati a fuggire. Secondo Rezai, i talebani hanno distrutto la biblioteca intitolata a Najiba perché volevano cancellare le tracce del simbolo rappresentato da Najiba Bahar – una donna che era riuscita a studiare all’estero, una figura di riferimento – e anche per eliminare ciò che incarnava fisicamente la memoria delle atrocità da loro commesse in passato.
Rezai non aveva alcuna intenzione di lasciare il Paese. Nonostante ne avesse avuto l’opportunità in occasione di due viaggi in Lituania e Austria per partecipare a corsi di formazione e conferenze, era determinato a «contribuire a costruire l’Afghanistan». Tuttavia, nell’estate del 2021 ha deciso di bussare alla porta di tutti i governi occidentali con i quali aveva lavorato in qualità di funzionario anti corruzione, chiedendo persino a un vecchio collega che contattasse personalmente l’ambasciatore del suo Paese. Ma inutilmente. Infine, ha contattato il giornalista italiano con cui aveva lavorato per un solo mese nel 2012, che ha scritto una lettera che attestava la loro collaborazione ed è riuscito a far inserire Rezai e la sua famiglia nella lista di persone che sarebbero state evacuate dalle forze armate italiane.
DOPO UN’ESPERIENZA da incubo all’aeroporto di Kabul e dopo aver superato molteplici controlli di sicurezza, il 30 agosto Rezai e la sorella sono riusciti a raggiungere l’Italia, dove hanno passato qualche giorno in un campo in Abruzzo prima di venire trasferiti a Roma. Sfortunatamente, nel caos dell’aeroporto di Kabul sono stati separati dai due nipoti di Rezai, che sono rimasti indietro. Rezai è determinato a fare tutto il possibile per ricostruire la Fondazione, e ha promesso di aiutare il personale che ci lavorava.
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