Ci sono giudizi di fatto e giudizi di valore. I primi sono molto più difficili da formulare, poiché rischiano impietosamente di non aderire alle pur legittime aspettative di chi deve corroborare i secondi. I giudizi di fatto, peraltro, non sono per nulla esenti dai punti di vista e dalle sensibilità dell’osservatore. Il modo in cui un evento trascorso è presentato, ad esempio, può fare la differenza nella sua successiva valutazione. Il tutto al netto di cosa contenga quel fatto medesimo, aspetto quest’ultimo che si spiega quasi sempre in base agli effetti che produce nel corso del tempo e non esclusivamente in quanto elemento a sé stante.

FARE STORIA, d’altro canto, implica il riuscire a stabilire delle concatenazioni logiche, offrendo a una platea la più ampia possibile dei codici di interpretazione condivisibili. E qui già sorgono alcuni problemi non da poco. La storia è stata espugnata da tempo dalle cittadelle della sua produzione scientifica. Non è oggetto di studio ma soggetto di giudizio. Non la si vuole conoscere, la si intende usare. È un terreno politico. Non è una novità ma ogni epoca deve confrontarsi con il suo uso improprio, in buona sostanza con una narrativa di mero ed esclusivo servizio. Una pubblicistica grezza e dozzinale (che nulla ha a che fare con la Public History), la sua mediatizzazione banalizzante attraverso la spettacolarizzazione del passato, l’inflazione di rimandi nei discorsi di senso comune, la virtualizzazione del passato (ridotto a una sorta di versione di comodo, a corredo degli interessi del momento), soprattutto la rilettura qualunquista dei movimenti politici e sociali così come la rimozione del riscontro che un fattore evolutivo delle società del diritto e della giustizia sia il conflitto mediato tra interessi contrapposti, sono alla radice della decadenza della cognizione del passato. Diciamo tutto questo, e altro potremmo aggiungere, poiché per capire quale sia la rilevanza della risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa», o si ragiona su cornici e contesti di merito o si rischia ancora una volta di non capire nulla. Per poi magari dividersi di nuovo tra favorevoli e contrari, in base esclusivamente ai due grandi moventi del presente, la vedovanza inconsolabile per un passato mitologizzato, al quale si contrappone lo spirito di eterna rivalsa di chi non è contro il «totalitarismo» in quanto tale, avversando semmai l’autonomia dei movimenti sociali, la loro carica libertaria, la spinta propulsiva nei processi di trasformazione culturale e civile collettiva.

Qualcosa per cui in Polonia una parte dell’attuale leadership può permettersi di dichiarare Lech Walesa alla pari di un «comunista». L’obiettivo dell’anticomunismo illiberale, poiché è questo il cuore pulsante dell’impianto ideologico di un minestrone di affermazioni che hanno al loro centro il rimando, a dir poco confuso e completamente astorico, al patto Molotov-Ribbentrop, si riduce a questo. Una verbosità e una cacofonia che non comportano neanche la riscrittura della storia ma il suo azzeramento. Ovvero, l’intercambiabilità di fatti, giudizi e pregiudizi, secondo una logica prêt-à-porter. Poiché ciò che fuoriesce dagli equilibri di potere oggi sospesi tra democrature, populismi e osservanze liberiste, ma anche a un asfissiante conformismo appiattito sull’idea che nulla possa essere modificato dall’azione collettiva, è ricondotto a mero fatto criminale.

ANCORA UNA VOLTA, in questo come in altri casi, l’obiettivo è il consolidamento della conquista del senso comune. La bizzarra e urticante filosofia della «fine della storia», che celebrava un simulacro di liberalismo, rimandava già trent’anni fa non alla valutazione critica del passato ma al suo uso esclusivo per legittimare un presente monocromatico, visto come unico orizzonte possibile. La risoluzione del Parlamento europeo riprende questa impostazione, la fa propria, la usa per mediare i conflitti interni con le rappresentanze dell’Est, dove la condanna degli uni (i «comunisti») non è il prodotto di una rielaborazione critica del proprio recente passato, tra ombre e compromissioni, aggiustamenti e collaborazioni, ma una pericolosissima scorciatoia per rendere più accetti gli altri, ovvero più digeribili i fascismi orientali. L’impostura logica sta infatti dietro l’angolo: se pari sono, perché poi prendersela troppo con chi praticò il genocidio programmato e di Stato? Fare precipitare l’universo concentrazionario dentro l’arcipelago gulag è esattamente il modo per anestetizzare i nefasti effetti di entrambi. La risoluzione parlamentare ha peraltro al suo centro non la storia in quanto tale ma due dispositivi specifici: l’ipertrofia della memoria, dove al centro del tempo che scorre si collocano esclusivamente le vittime e i carnefici, non la società nelle sue molteplici stratificazioni e contraddittorie trasformazioni; la sanzione giudiziaria o legislativa, comunque memorialistica, in qualche modo implicata dai ripetuti richiami ad altri giorni di commemorazione che dovrebbero accompagnare calendari civili già inflazionati da ricorrenze dolenti, quasi a volere sostituire ai riti religiosi forme di beatificazione laica delle vittime civili. Una società di prefiche, in buona sostanza. Insieme all’ombra della punibilità, evocata in due commi che sono l’apoteosi del pericolosissimo declivio così intrapreso. Il Parlamento, infatti, «esprime inquietudine per l’uso continuato di simboli di regimi totalitari nella sfera pubblica e a fini commerciali e ricorda che alcuni paesi europei hanno vietato l’uso di simboli sia nazisti che comunisti; osserva la permanenza, negli spazi pubblici di alcuni Stati membri, di monumenti e luoghi commemorativi (parchi, piazze, strade, ecc.) che esaltano regimi totalitari, il che spiana la strada alla distorsione dei fatti storici circa le conseguenze della Seconda guerra mondiale, nonché alla propagazione di regimi politici totalitari».

CANCELLARE, rimuovere, azzerare. E punire. Già sui recenti fatti legati alla perseguibilità penale del negazionismo e al contrasto per via giudiziaria del neofascismo politico ci eravamo permessi di obiettare, anche nella consapevolezza che intrapresa la strada della sistematica sanzione rispetto a tutto ciò che deroga da un fittizio consensualismo, si rischia di assumersi il ruolo di polizia del pensiero univoco. I fascismi si battono politicamente, i totalitarismi si superano storicamente. Tutto questo di per sé basterebbe e avanzerebbe se non fosse per il fatto che la risoluzione si spinge oltre, rivelando la sua più intima radice nel passaggio in cui i firmatari e votanti chiedono «l’affermazione di una cultura della memoria condivisa, che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani; incoraggia gli Stati membri a promuovere l’istruzione attraverso la cultura tradizionale sulla diversità della nostra società».

SE È VERO che il campo dell’identità collettiva è stato occupato nel corso degli ultimi decenni dalle politiche della memoria, è non meno vero che tali memorie, per essere autentiche, non possono che rimanere in conflitto, in tensione, in contrapposizione. Straparlare di una «cultura della memoria condivisa» implica il predicare il disarmo della politica, nel nome di un’inesistente pace sociale, in realtà fatta di acquiescenze, servitù, compromissioni. La memoria condivisa è invece quella che dovrebbe garantire impossibili «pacificazioni», alle quali immediatamente seguono nauseabonde «parificazioni». Dove finisca, tra gli altri, la specificità dello sterminio razzista contro gli ebrei, come anche la politica repressiva, oppressiva e assassina dello stalinismo in Ucraina, i firmatari non ce lo sapranno mai dire. Poiché non guardano all’uno o all’altro caso ma solo all’apologia di se stessi. È un racconto dell’impotenza quello che quindi emerge dal pasticcio logico, prima ancora che linguistico, consegnatoci dal Parlamento europeo. Un groviglio non solo contraddittorio ma il segno che alla cosiddetta «morte delle ideologie» si è accompagnata l’estinzione delle culture politiche, ovvero della necessità di una diversità conflittuale che non sia basata sui soli fantasmi dell’etnicismo e dell’identitarismo.

Un tale modo di procedere, segnatamente, rende impossibile comprendere che cosa sia stato davvero il patto Molotov-Ribbentrop, in quale contesto geopolitico e storico si sia verificato, quanti drammi – anche personali – abbia prodotto nei movimenti, quali lacerazioni di lunghissimo periodo abbia fatto maturare. La Seconda guerra mondiale diventa il prodotto della firma di un trattato tra due finti nemici. Con tanti saluti ai discorsi sulla comprensione della complessità dei processi storico-sociali. E in linea con l’indirizzo populista, che si alimenta appieno di un tale appiattimento. La risoluzione, quindi, non evidenzia e non denuncia: semmai occulta dietro una coltre di banalizzazioni incongrue. Portando argomenti a uso e consumo di chi sta giocando la partita della frantumazione contro ciò che resta dell’Europa unita.