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Klaus Mann, forze dionisiache frenate dall’etica della contingenza

Klaus Mann, forze dionisiache frenate dall’etica della contingenzaErnst Ludwig Kirchner, «Un uomo e una barca», 1925

Scrittori tedeschi Tormentato da una «nevrosi dello spaesamento», dopo un lungo viaggio con la sorella Erika, Klaus Mann pubblica a Amsterdam, nel 1934, «Fuga al Nord», ora tradotto da Castelvecchi

Pubblicato circa un anno faEdizione del 23 luglio 2023

Se non fosse stato per l’Oscar assegnato nel 1982 al Mephisto di István Szabó, che trasponeva per lo schermo un suo discusso romanzo del 1936, per decenni proibito nella Germania occidentale, forse il nome di Klaus Mann sarebbe ancora oggi soggetto all’oblio che calò sulla sua opera dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Eppure il secondogenito di Thomas Mann era stato uno dei protagonisti della letteratura tedesca della prima metà del Novecento.

Il modello e la fama del padre sono stati il suo tormento e la sua forza. Da qui la vena tragressiva, che resta tuttavia ancorata a una tradizione esteticista, simbolistica, decadente. Negli anni infuocati della Repubblica di Weimar, segnati da un’inusitata politicizzazione della vita pubblica, il giovane Klaus Mann è attratto dal «sublime estetismo» di Rilke, venera Stefan George, è affascinato dal «miscuglio di erotismo e metafisica, di sognante religiosità e sensualità febbrile» che coglie nella poesia romantica di Novalis. Si sente rappresentante di una generazione perduta, chiamata a far fronte alla decomposizione di tutti i valori, e ambisce a dar voce a questa gioventù libera da dogmi morali e politici, che gode e soffre la vita come mistero insondabile e perpetua agitazione. L’eros sembra essere per Klaus Mann l’unico appiglio contro quella che definisce una «nevrosi dello spaesamento», l’ultima motivazione di un’esistenza essenzialmente tragica, che gli si presenta come gioco di forze senza scopo e finalità. Eros e malinconia, piacere e morte si stringono in un doppio legame che è forse la fonte primaria della scrittura di questo autore irrequieto, capace di sfidare il tabù della omosessualità in romanzi autobiografici come La pia danza, scritto a vent’anni. Da allora e per due decenni Klaus Mann pubblicherà ogni anno uno o due libri: romanzi, drammi, reportage di viaggi, oltre a numerosi articoli e saggi, mentre continuamente viaggia, tenta inutilmente di vincere la sua dipendenza dalla droga e incontra scrittori, artisti, intellettuali. Con la sorella Erika raggiunge il Nord Africa, gli Stati Uniti, il Giappone, la Corea, l’Unione sovietica, e in Finlandia è ospite, nel 1932, dell’amico Hans Aminoff: proprio le esperienze consumate in questo viaggio confluiscono nel romanzo Fuga al Nord, pubblicato a Amsterdam nel 1934 e tradotto per la prima volta da Massimo Ferraris (Castelvecchi, pp. 216, € 20,00), ultimo titolo di una serie di opere proposte dall’editore romano nel recente passato, tra le quali  Punto d’incontro all’infinito, del 1932, che mette a tema l’estasi, l’intensificazione della vita provocata dall’uso di droghe o attraverso l’esperienza amorosa.

Anche la scena di Fuga al Nord è occupata da questo desiderio dionisiaco, frenato tuttavia e controllato dal richiamo alla responsabilità etica e politica dello scrittore, cui l’ascesa del nazismo aveva imposto una presa di posizione chiara e una prassi militante. Klaus Mann è uno dei primi a lasciare la Germania dopo l’ascesa al potere dei nazisti, e fin da subito diventa un protagonista tra i più combattivi della letteratura tedesca in esilio: fonda due riviste antinaziste, è reporter nella Spagna della Guerra civile, conferenziere in giro per l’America, soldato nell’esercito statunitense. In Fuga al Nord, il primo romanzo scritto dall’esilio, Mann descrive quel passaggio alla politica che si era imposto a molti tra gli scrittori e gli intellettuali costretti, dopo il 1933, non soltanto a emigrare ma anche a congelare posizioni estetiche precedenti.

Nel romanzo, la giovane comunista Johanna lascia la Germania intenzionata a raggiungere i suoi compagni di lotta a Parigi, ma una tappa presso la ricca famiglia della sua amica Karin, in Finlandia, le offre l’occasione di innamorarsi del fratello di lei, Ragnar, per molti versi descritto come un autoritratto dell’autore prima del ’33: dedito al piacere e «alla malinconia dell’attimo fuggente», la sua fragilità  è «nobilitata dalla nevrastenia» e l’odio per il nazismo è vago, generico. A contatto con lui, Johanna è tentata di dimenticare il compito politico che la chiama e di cedere alla nostalgia; alla fin fine si forza e va incontro ai suoi doveri di combattente «senza entusiasmo ma con coraggiosa risolutezza».

A leggere le opere scritte da Klaus Mann dopo il 1933, soprattutto La svolta, ovvero la sua seconda autobiografia, anche l’impegno antinazista durante il suo esilio sembra funzionale a combattere la sua propensione tragico-decadente, la morbosa attitudine autodistruttiva che gli rendeva così desiderabile la morte alla quale infatti si arrese, togliendosi la vita con una overdose di barbiturici, nel maggio del 1949. E, forse, proprio l’invincibile male di vivere ha fatto sì che Klaus Mann descrivesse così compiutamente lo sradicamento dell’esule, e l’atto erotico come rifugio al tempo stesso inebriante e desolante, a fronte dell’impossibilità di ritrovarsi in consonanza con l’altro e con il resto del mondo.

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