Poco dopo la pubblicazione del suo primo romanzo, il cui titolo vulgato, Fiesta, non per caso richiamava ex ante la più celebre fra le opere postume, Festa mobile, Ernest Hemingway volle solennemente celebrare il suo soggiorno parigino e i cosiddetti «anni folli»: era il 1929 e lo fece alla propria maniera, rimarcando l’evento nei termini di una eccezione e cioè accettando di scrivere la prefazione a un libro non suo. Non si trattava di un romanzo né di un’opera in sé letteraria ma, appena, di un libretto di memorie sobriamente intitolato Souvenirs e lo firmava, pur presentandolo come il bilancio di tutta la vita, una ragazza di venticinque anni a nome Alice Prin, nata in Borgogna nel 1901, figlia naturale e poi orfana, già passata per una serie di mestieri (operaia, commessa, modella d’atelier) e di non meno numerose, ardue, iniziazioni alla sopravvivenza. La giovane, schietta e a momenti

insolente, bella senza essere convenzionale (il naso all’insù e i capelli corvini, tagliati à la garconne, contrastavano con le sue forme prosperose e una carnalità solare), si era trasferita a Parigi, e anzi a Montparnasse, proprio nel momento in cui la riva sinistra della Senna sostituiva la riva destra quale ricettacolo di artisti e intellettuali: presto del Quartiere per antonomasia era divenuta l’emblema, l’ambasciatrice, meritando l’appellativo con cui sarebbe stata in seguito universalmente nota, Kiki, ovvero per esteso Kiki di Montparnasse. In una lettera privata a un libraio americano circa i Souvenirs (in italiano Memorie di una modella, Castelvecchi 2016) Hemingway si esprime in questi termini: «Scrissi l’introduzione per far piacere a Kiki – guardi un paio delle sue fotografie ai vecchi tempi e capirà perché – però non l’avrei mai scritta se non fosse stato in alcune parti, cioè l’infanzia e il Quartiere, un libro straordinario, dannatamente bello: lo legga in francese». Il francese di Kiki era la ricaduta per iscritto della sua stessa voce, una voce rauca e ruvida persino ma fasciata di autentico velluto, ora tenebrosa e insinuante ora gioiosa, eclatante e comunque complice di qualsiasi interlocutore. Perché un altro mestiere di Kiki (e su tutti il più longevo) era la cantante nei ritrovi alla moda, dal Jockey a Le Boeuf sur le Toit e naturalmente La Rotonde dove negli anni della guerra, ancora ignota agli habitué, era scambiata volentieri per una intrusa o per una prostituta da pochi franchi. Cantava invece in un argot furente e insieme sentimentaleggiante, ora aggressiva ora dolce e persino neghittosa, passando col piattino fra i tavoli e ringraziando con la gonna alzata, ostentando le cosce e il suo grosso stupendo sedere: e pare che tra gli affezionati spesso comparisse, bombetta e pizzo da fauno, l’ineffabile Erik Satie.  In realtà i suoi Souvenirs poco o nulla dicevano su Parigi, sul Quartiere e sui più o meno rinomati avventori, mentre indugiavano sulle vicissitudini di una provinciale inurbata, troppo ingenua per non dover pagare pegno (e la sua croce fu la dipendenza dall’alcol e dalle droghe, specie la cocaina), per infine schiattare o indurirsi come è fatale nei romanzi di formazione.

Paradossalmente, una volta messi per iscritto, i suoi ricordi vagheggiavano quell’infanzia terribile e perduta nel momento in cui, viceversa, omettevano o parevano dare per scontata sia la realtà presente sia il fatto che tutta Montparnasse la chiamasse Kiki alla spiccia per non sciorinare la pletora delle sue identità. Modella si è detto (e all’inizio di Amedeo Modigliani, nientemeno), poi cantante e cabarettista (il suo riferimento divenne la scatenata Inès di Pépé le Moko – 1937 – il film di Duvivier con l’adorato Jean Gabin), infine pittrice di acquerelli per una cerchia neanche così breve di intenditori: pur essendo modella e musa di alcuni fra i maggiori artisti fra Modernismo e Avanguardia, Kiki era però di gusti relativamente più tradizionali e le sue tele alludevano semmai, con squisita misura, all’allure di una naturalista che amasse tuttavia Cézanne. Di tutto ciò e delle plurime facce di un simile diorama esistenziale si occupa il lavoro di Mark Braude, Kiki di Montparnasse Artista, intellettuale, musa fra Modigliani e Man Ray (traduzione di Alessandro Zabini, Superbeat, pp. 283, € 19,00), documentato e scritto alla maniera di un reportage che muove dal personaggio di Kiki ma dà conto nel frattempo della vita del Quartiere e dei suoi personaggi elettivi, da Jean Cocteau a René Crevel, dall’intera compagine dadaista e surrealista a Henri-Pierre Roché, avventuriero e poligrafo, l’autore del romanzo Jules et Jim che uscì nell’anno della morte in povertà di Kiki (1953) tra le sicure ispiratrici, nella sua poetica sventatezza, della protagonista Catherine che al cinema, nel film di Truffaut, ebbe il volto affine di Jeanne Moreau. Ma dire Kiki è dire anche Man Ray e infatti intorno al loro connubio, inaugurato già nel ‘21, si struttura la monografia di Braude. Se è vero che Kiki fu in ogni senso ispiratrice dell’artista americano, è vero altrettanto che Man Ray continuò fino alla fine a sminuirne il talento e a non riconoscerla artista tout court: nei suoi non pochi scritti autobiografici, infatti, ignora gli acquerelli di lei, dedica poche righe inessenziali ai Souvenirs e soltanto le concede qualcosa come cantante. Eppure, senza Kiki non ci sarebbero né le fotografie né le filmine sperimentali di Man Ray e, tanto meno, le sue personalissime «rayografie», vale a dire le immagini fotografiche ottenute con oggetti portati direttamente a contatto su carta sensibile. Va detto per inciso che per tutta la vita Man Ray si volle senz’altro pittore, e nel senso più tradizionale, infastidito dalla sua fama progrediente di fotografo e di cineasta. Il nudo di Kiki a lungo prediletto dai pittori di Montparnasse (e basterebbe pensare alle tele di Foujita che fu sempre un suo devoto) è fondativo della ritrattistica di Man Ray. La plasticità del corpo di lei va da Noire et Blanche (‘26), dove il candore della pelle duplica a contrasto la natura morta di una masque nègre, ai nudi ubertosi e deliberatamente pornografici del ciclo Saisons fino all’immagine eponima, più una orifiamma d’autore o un poster dell’Avanguardia storica che non una fotografia: naturalmente, è Le violon d’Ingres (‘24) dove la schiena di Kiki si presta a una diretta citazione di Ingres (La bagneuse, del 1808) ma esibisce in sovrimpressione due effe stilizzate che la fanno assomigliare a uno strumento musicale.

Kiki non gradì né la sovrimpressione né il titolo che in francese allude all’idea di passatempo. Detestava quella foto ma le sarebbe stata risparmiata la notizia che nel maggio del 2022 l’originale venne battuto all’asta da Christie’s per 12,4 milioni di dollari. D’altronde ci ricorda Mark Braude che «loro erano surrealisti, Kiki semplicemente era realista».