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Kenya, miracolo a Lunga Lunga

Kenya, miracolo a Lunga LungaI Maasai Mbili fuori del loro studio a Kibera, ph. Laura Salvinelli

Reportage Visita allo studio di Shabu Mwangi, ospite a Documenta con il collettivo Wajukuu

Pubblicato circa 3 anni faEdizione del 25 settembre 2021

Alla fine della corsa, di fronte allo stabilimento della Thames Electricals nella zona industriale di Nairobi, l’autista del taxi mi dice che non può lasciarmi lì da sola. C’è un capannello di persone intorno al cadavere di una vacca che, mi dirà il giovane artista che mi viene a prendere, Kimathi Kaaria (Kim), è appena morta fulminata. Sono a Lunga Lunga, uno degli slum più malfamati della capitale del Kenya, perché il collettivo artistico Wajukuu è stato selezionato per la 15 edizione della prestigiosa rassegna internazionale d’arte contemporanea documenta che si svolgerà a Kassel dal 18 giugno al 25 settembre 2022.

Kim mi accompagna a vedere gli alberi piantati dal collettivo lungo le rive del fiume Ngong che scorre lentamente, pesante di scarichi e liquami, e nel laboratorio di pittura dei bambini pieno di colori e gioia. Wajukuu in Swahili significa nipoti, e si riferisce alla responsabilità verso i nipoti, all’impegno a costruire un mondo migliore per loro. È nato nel 2003 come primo progetto artistico della comunità. Dei 12 fondatori ne sono rimasti in vita solo la metà: 6 sono stati uccisi dalla polizia.

Capacità di sognare
L’atelier di Shabu Mwangi è fatto di lamiera ondulata come le altre abitazioni. Il pittore mi srotola delle tele a terra e dà da mangiare ai polli che razzolano fra i capolavori. Potrebbe vivere altrove, ma lo slum gli ricorda il ruolo dell’artista nella società, che, mi dice, «non è una scelta ma una responsabilità», ed è lì che la sua vita e il suo lavoro si realizzano a pieno. Gli chiedo di raccontarmi la sua storia. «Sono nato nel 1985 e cresciuto in una discarica» inizia, con una bella voce tenera e sicura di sé. «Non ho mai conosciuto mio padre. Sono andato via di casa a 11 anni e sono stato un bambino di strada per 3 anni. Riciclavo la plastica e il metallo per comprarmi da mangiare e aiutare la mia famiglia. Al tempo non mi rendevo conto di quanto fosse misera e pericolosa la mia vita perché non conoscevo altro.

Shabu Mwangi nel suo studio. Lunga Lunga slum, Nairobi, Kenya. 2021, ph. Laura Salvinelli

 

Ero solo concentrato a restare vivo per arrivare all’indomani. Ero anche felice: nuotavo in una grande pozza d’acqua della discarica che mi sembrava il paradiso e mi piaceva esplorare e sentirmi uno zingaro. Solo crescendo mi sono reso conto di aver attraversato l’inferno per arrivare qui, ed è stato un trauma. Vivevo circondato dal crimine: nessuna delle industrie che inquinano e causano incidenti in questa parte della città ci dava lavoro perché eravamo considerati banditi e di conseguenza per campare molti dovevano fare cose illegali. Per me era normale che i miei amici cofondatori del collettivo fossero ammazzati uno dopo l’altro dalla polizia, e sapevo che se non avessi fatto qualcosa, sarei morto anch’io. Ma il crimine non mi ha mai impedito di vedere chi fossi e di ascoltare la mia voce interiore. E poiché fin da piccolo ho sempre disegnato, l’arte è stata la mia cura, la mia ribellione e la mia salvezza.

Per questo abbiamo aperto un percorso per i bambini della comunità che li faccia focalizzare sulle loro vite e sognare e credere che domani sarà migliore se oggi si impegnano, anche se non diventeranno tutti artisti. Non vogliamo che perdano la loro infanzia come noi. Vedi, non possiamo decidere quando, dove e da chi nascere, ma possiamo avere il controllo di chi vogliamo diventare attraverso quello che facciamo e il modo in cui ci confrontiamo con l’umanità».

Lunga Lunga con i suoi 80 mila abitanti fa parte di Mukuru, che ne conta in tutto circa 700mila. Per avere un’idea della sua sovrappopolazione, in un’area industriale dove non si dovrebbe vivere, basti sapere che la sua densità è di 466 persone per acro, mentre quella di Nairobi è di 18. Gli incidenti sono all’ordine del giorno. 10 anni fa ci fu un tremendo incendio a seguito di una fuoriuscita di petrolio della Kenya Pipeline Company. Morirono bruciate centinaia di persone di cui il governo non diede mai il numero esatto. Sul luogo della tragedia rimase solo «mabati», la lamiera ondulata di cui sono fatte le abitazioni. Per onorare le vittime Shabu la riciclò, la appiattì e ci dipinse sopra. Da quel momento le sue opere sono su «mabati» oltre che su tela. I suoi colori, a parte il nero e il bianco in olio, sono naturali: «provengono dagli alberi e non dalle fabbriche».

Li prepara bollendo le cortecce a cui aggiunge ossido di ferro. I suoi soggetti sono migranti; madri solitarie per l’assenza dei padri; ragazze che si prostituiscono o che abortiscono illegalmente; muratori che non sono mai invitati all’inaugurazione degli edifici che hanno costruito; persone mutilate, con mani e piedi (simbolici) tagliati dal sistema criminale; attivisti dei diritti umani imprigionati per aver tentato di ribellarsi; modernità contro tradizione. Il suo lavoro è tutt’uno con le sue idee politiche. Dello spirito commerciale pensa che «sia la stessa cosa del capitalismo, cioè ingiustizia e avidità. Le persone sono impazzite perché credono che col denaro possono fare tutto. È tutto il contrario del comunismo, secondo cui siamo tutti uguali e lavoriamo tutti per l’umanità».

Della globalizzazione che «non funzioni perché uccide le tribù indigene e i Paesi poveri. Noi non abbiamo voce. L’imposizione della lingua inglese è colonizzazione culturale. Senza la nostra lingua non solo non ci sappiamo esprimere bene, ma perdiamo anche la nostra cultura e la nostra identità. Cresciamo con la paura che ci instillano, studiamo col terrore di restare miserabili, e anche quando lavoriamo restiamo ingabbiati nel sistema. Noi non possiamo competere con la grande economia dell’Occidente.

Razzismi
Siamo stati colonizzati e sfruttati per secoli e ora ci vogliono nel mercato globale quando invece abbiamo solo bisogno di crescere col nostro passo. Non abbiamo bisogno di essere globalizzati». Delle migrazioni che «non siano un problema africano ma globale. Le persone emigrano non perché vogliono andare in Europa e negli Usa, ma perché seguono quello che è stato saccheggiato. Se i Paesi occidentali restituissero quello che hanno rubato e investissero in Africa, la nostra economia si solleverebbe e ci sarebbe più lavoro, e resteremmo a casa nostra. Lasciamo la nostra terra solo quando qui non è rimasto niente». Mette in discussione la democrazia «quando la volontà della maggioranza è ingiusta, come nel caso dei palestinesi visti come terroristi e della gran parte degli Stati che appoggiano Israele nonostante le sue colpe».

E del razzismo, vissuto sulla sua pelle quando è venuto ad esporre in Italia, crede che «le persone odino a tal punto se stesse da non vedere più se stesse negli altri. Solo se diamo valore a chi siamo, possiamo vederci negli altri ed essere in grado di apprezzare la varietà e la differenza come qualcosa che arricchisce e rende il mondo più bello».

Anche nel dramma, le opere di Shabu Mwangi e la sua vita sono piene di purezza e tenerezza. Parlando della necessità di passare attraverso l’esperienza per realizzare se stessi, mi ha detto: «Non si può essere puri se non si è purificati attraverso il fuoco», e a me sembra che ci sia riuscito. È questo per me, al di là del prestigio dell’essere col progetto collettivo Wajukuu nella programmazione di documenta 15, il «miracolo a Lunga Lunga».

I due (finti) Masai di Kibera
Altro slum, altro stile di vita. Ora sono nel più grande di tutta l’Africa, Kibera, due milioni di popolazione stimata. Anche questo a Nairobi, dove il 60% delle persone vivono nelle baraccopoli. Nel bar di Esther pago una memorabile (per me) bevuta di chang’aa al collettivo artistico Maasai Mbili fondato nel 2001 da Otieno Gomba e Otieno Kota: i due (finti) Masai. So cosa rischio di mandare giù e cerco di limitarmi il più possibile, ma senza partecipare non sarebbe possibile avvicinare empaticamente i due e i loro amici.

Chang’aa significa «uccidimi velocemente», è un distillato illegale di cereali preparato con acqua inquinata da scarichi di fogna e industriali, a cui si aggiungono spesso e volentieri carburante per aerei, fluido da imbalsamazione o acido di batteria per velocizzarne la fermentazione. Negli slum del Kenya è molto popolare e fa arricchire alcuni mentre acceca e ammazza molti. L’illegalità come motto e l’uso di chang’aa e altre sostanze, almeno nelle intenzioni, non per lo stordimento ma per l’apertura della mente mi riporta in piena controcultura d’antan. Mi stanno molto simpatici, dunque metto la mia vita nelle mani di Esther per vedere gli M2 – è il loro nome abbreviato – nello «studio B». Che non è solo un posto per bere, ma anche per essere aggiornati su tutto quello che succede nella comunità e in città.

I due Otieno nascono artisticamente come una coppia di giovani grafici pubblicitari che giravano ironicamente per Kibera vestiti da Masai con i pennelli attaccati ad aste come fossero lance. L’idea ha attratto clienti e altri artisti con cui hanno formato uno dei primi collettivi di Nairobi. Sono stati tra i primi a fare arte con materiali riciclati. Sono diventai molto conosciuti durante le gravissime violenze post-elettorali del 2007, quando ci furono scontri fra i Luo e i Kikuyu che fecero più di mille morti. Riempivano lo slum di scritte pacifiste tipo: «Non combattete per Kibaki o Odinga, loro se ne fregano di voi» oppure «La violenza aiuta solo i politici. Non fatevi usare». La loro fama si è estesa, hanno esposto anche in Europa ma sono sempre tornati a Kibera, che col suo concentrato di umanità vibrante, è il loro «studio C», da cui traggono linfa vitale. «La nostra è ghetto art», mi dice Otieno Gomba nello studio che è laboratorio e galleria.

«Da fuori si vede solo il lato negativo dello slum. La nostra arte mostra il suo lato carico di vitalità, umanità, humour, e si fonde nell’arte contemporanea portando la strada nelle gallerie e le gallerie nella strada. La usiamo come mezzo per riportare pace quando qui scoppia il caos, come durante le elezioni, è il nostro modo di fare politica». Ora il gruppo si è ingrandito, composto da 16 membri di cui però solo una donna «Le donne vengono e vanno, hanno i loro motivi, si sposano, o vanno a far parte di altri gruppi». Kevo Stero ci tiene a precisare che «lo spirito commerciale uccide la creatività. Realizziamo i nostri lavori pubblicitari per le attività commerciali locali per vivere ma i nostri progetti personali sono liberi». «Come vedi non facciamo l’arte commerciale per i turisti, quella che non ritrae niente della realtà. Non vendiamo manco le immagini dei Masai, al contrario delle gallerie e dei Musei, nonostante il nome. Ricicliamo gli scarti dei prodotti delle industrie e li restituiamo alla comunità. La nostra è un’azione contro il capitalismo» aggiunge il rapper Blak Odhiambo.

Questi artisti di strada sono sicuri che le cose cambieranno: «Le nuove generazioni non ne possono più del sistema oppressivo», dice il musicista Bayo, «c’è bisogno del cambiamento». «Questo è un Paese giovane che farà la rivoluzione» aggiunge Gomba, «ma non con le elezioni, che sono solo una formalità», specifica Kota. Respirando l’atmosfera vibrante dello slum direi che hanno ragione e lo spero. Ma a costo di quanto sangue ancora?

Arte per il cambiamento
Anche l’ong Cisp(Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli) crede che l’arte possa portare al cambiamento. «Il Cisp è una delle poche organizzazioni a usare l’arte e la cultura in un contesto di sviluppo». Sto intervistando a Nairobi Chiara Camozzi, la referente tecnica per il settore cultura dell’ong dal 2014. Chiara è un architetto, ha 46 anni e vive in Kenya dal 2007. «Crediamo fortemente nelle potenzialità dell’arte e della cultura per favorire il dialogo, la comprensione reciproca, la tolleranza e il rispetto tra le persone. Le arti e la cultura possono essere sostenute per promuovere l’inclusione sociale e la coesione, la pace e la protezione delle persone vulnerabili, e allo stesso tempo come mezzo per favorire lo sviluppo economico e la creazione di posti di lavoro dignitosi.

ArtXchange è un progetto pilota finanziato dall’Unione Europea per lo sviluppo del settore creativo in cui si supporta lo sviluppo di competenze di giovani professionisti del settore e si incoraggia lo scambio tra artisti africani ed europei. Ha tante attività diverse che vanno dalla formazione alla creazione di reti di mercato e di relazioni e scambi, e offre borse di studio e finanziamenti per iniziare startup nel settore creativo, residenze e workshop di co-creazione artistica. È uno scambio di buone pratiche, innovazioni, conoscenze di vari generi nel settore culturale dall’Europa verso l’Africa e dall’Africa verso l’Europa. Nonostante la pandemia siamo riusciti ad implementare diverse attività, trasformandole spesso in attività online sulle piattaforme digitali, e finora abbiamo ottenuto un ottimo riscontro da parte degli artisti perché non ci sono molte organizzazioni e finanziamenti in questo settore, quindi c’è bisogno di queste iniziative. Personalmente, lavorare con questi strumenti creativi permette di connettersi e relazionarsi più profondamente». In effetti, il workshop di Body Mapping (un percorso di meditazione e pittura che porta alla rappresentazione del proprio corpo fisico e mentale in grandezza reale con colori, parole, simboli e parole) che ho documentato al Nairobi National Museum è stato emozionante anche per me.

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