2 gennaio 2022. Il governo rimuove il tetto sui prezzi del carburante Gpl, provocandone il raddoppio. Esplode la protesta popolare e le autorità decidono di fare appello all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva, l’alleanza militare a guida russa di cui fanno parte 6 paesi dell’area Csi. All’alba del 6 gennaio, arrivano oltre duemila militari e 250 mezzi. In una settimana la rivolta viene sedata.

È LA CRISI CHE SCUOTE il Kazakistan all’inizio dello scorso anno. Una crisi quasi dimenticata dopo l’invasione dell’Ucraina, ma con ragioni profonde e che apre a nuovi scenari. Entrambi analizzati in maniera completa ed efficace da Fabrizio Vielmini nel suo libro Kazakistan: fine di un’epoca (Mimesis, pp. 408, euro 32). Un lavoro necessario che getta luce su «30 anni di neoliberismo e geopolitica nel cuore della terra». L’autore racconta in modo approfondito il «crocevia dell’Eurasia», mettendone in luce la diversità culturale e l’universo «simbolico eclettico». A partire dalle tribù nomadi e il ruolo dell’Islam, «sottile involucro steso su una cultura di base sincretistica». Per arrivare all’incontro con la Russia e l’Unione sovietica. «Nello spazio di un decennio, uno stile di vita millenario viene sradicato da una grande opera di ingegneria sociale». Il Kazakistan diventa l’unica repubblica in cui i titolari sono minoranza, «appena il 30% nel 1959». Un «pianeta delle 100 lingue» che salta giù per ultimo dal carro sovietico, dopo i tentativi di Nursultan Nazarbaev di salvare l’Unione «attraverso una trasformazione in senso più autenticamente federale».

LA LINEA SCELTA subito dopo dal leader kazako ha conseguenze che si fanno sentire ancora oggi e, secondo Vielmini, aprono a possibili nuove proteste popolari come quelle del gennaio 2022. «Il nuovo Stato si ricolloca nell’economia-mondo assumendo una condizione neocoloniale: da area economica diversificata diviene un fornitore sottosviluppato di materie prime destinate all’Occidente».
Petrolio, gas, risorse minerarie. E il suo posizionamento geografico. Il Kazakistan acquisisce grande rilevanza per Stati uniti ed Europa, che chiudono entrambi gli occhi di fronte all’accentramento di potere di Nazarbaev. È il «nuovo grande gioco» in cui il confronto si sposta dalla Germania al mar Caspio. Nazarbaev si «salva» dalla stagione delle «rivoluzioni colorate» promosse da Washington nello spazio post-sovietico anche grazie alla politica estera della «multivettorialità», che porta il Kazakistan «su diversi tavoli diplomatici in modo da controbilanciare debolezze e pressioni da parte di Russia, Usa, vicini meridionali e Cina». Il tutto condito da una forte attività di lobbying.

KASIM-ŽOMART TOKAEV, successore di Nazarbaev, sembra muoversi verso un ritorno dello Stato a coordinare lo sviluppo economico. Dietro le quinte delle proteste, si è giocata una sfida tra il «cerchio interno» del regime che voleva «sabotare il compimento della transizione del potere» e lo stesso Tokaev che è riuscito a puntellare la sua posizione con l’aiuto di Mosca. Il referendum costituzionale e le elezioni anticipate danno linfa alla manovra del presidente che ha palesato la necessità di un new deal per restituire l’enorme ricchezza «sottratta alla nazione».
Ma la creazione di un «nuovo Kazakistan» deve fare i conti con le conseguenze della guerra in Ucraina. Tokaev ha preso a più riprese le distanze da Mosca e cresce il ruolo della Cina, già molto presente in Asia centrale sin dagli anni ’90. Non è un caso che Xi Jinping abbia lanciato proprio dal Kazakistan la Belt and Road Initiative. La cooperazione è tracimata dal fronte commerciale alla sicurezza e la guerra sta rendendo la Cina il «garante della stabilità» della regione. Significativo che la prima visita all’estero di Xi dopo quasi tre anni di pandemia sia avvenuta in Kazakistan, rassicurato sulla tutela cinese di fronte alle «interferenze esterne».

VIELMINI TRACCIA poi i possibili scenari: stabilizzazione fredda, destabilizzazione fredda o destabilizzazione calda. Ma spiega anche perché sarà cruciale la scelta di fronte a cui si trova Tokaev: fare del paese «un ponte fra tutte le civiltà fra il Mediterraneo e il mar Giallo», operando un «taglio deciso col nazionalismo». Oppure «venire risucchiato dal meccanismo plutocratico» eredità dell’era Nazarbaev. L’onda della sua scelta è destinata a uscire dai confini, o meglio dalla frontiera, del «cuore della terra».