Katsudo benshi, «la voce» dello schermo muto
Visioni

Katsudo benshi, «la voce» dello schermo muto

Maboroshi Antica arte giapponese dove un narratore accompagnava con commento e spesso dando parola ai vari personaggi sul grande schermo, il cinema giapponese prima dell'avvento del sonoro

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 18 marzo 2022

Il benshi, o katsudo benshi, è un narratore che accompagnava con commento e spesso dando parola ai vari personaggi sul grande schermo, il cinema muto giapponese. Se è vero che il cinema prima dell’avvento del sonoro non era mai in realtà un cinema silenzioso, ma veniva sempre accompagnato dalla musica, questo è stato ancora più vero nell’arcipelago giapponese, dove ai film muti veniva spesso dato un ulteriore senso grazie alle parole del benshi. L’incontro di questa arte con con la popolarità della bicicletta, in un periodo, quello tra le due guerre mondiali, in cui le condizioni economiche erano in caduta libera, fa nascere il kamishibai, una sorta di teatrino mobile fatto di disegni di carta, trasformati attraverso la narrazione in una storia coerente. Naturalmente l’accompagnamento dei disegni o di pitture attraverso parole che li trasformino in una narrazione viene da molto lontano ed è già presente in molte culture dell’antichità, ma il kamishibai come fenomeno di intrattenimento prevalentemente dedicato alle masse ha una specificità ed una storia che nasce nel Giappone del periodo interbellico. Questa arte girovaga nasce quindi quando il paese, impegnato in una violenta politica imperialista in Asia, stava attraversando una profonda crisi economica e molte persone per sfamarsi cominciarono a provare le occupazioni più disparate.

FRA QUESTI anche i benshi, che l’avvento del cinema sonoro costrinse alla disoccupazione e che trovarono un naturale proseguimento della loro carriera nel continuare a raccontare storie, non più di immagini in movimento, bensì di disegni. I kamishibaya, coloro che andavano in giro in bicicletta annunciando il loro arrivo con il suono prodotto da due pezzi di legno, si spostavano di luogo in luogo vendendo prima dello spettacolo dei dolciumi, la vera fonte di guadagno, una sorta di sponsorizzazione ante litteram, come decenni dopo sarebbe successo per serie animate o di effetti speciali che venivano, e ancora vengono, prodotte per vendere il merchandise e i giocattoli di turno. I kamishibaya erano l’ultimo anello, forse quello più importante, nella catena di queste piccole imprese artistiche, dietro a loro c’era chi forniva e riparava le biciclette, mezzo fondamentale per potersi spostare da luogo a luogo e che venivano modificate per permettere di portare il piccolo “teatrino” sulla parte posteriore. Naturalmente un ruolo assai importante era anche quello di chi creava e metteva su carta le storie, che dovevano essere avvincenti, ma mai troppo lunghe e che dovevano essere sfornate a ritmo serrato.

LA GUERRA arrestò la popolarità di questa arte di strada e nel periodo post bellico, specialmente nei primi anni cinquanta, l’avvento della televisione, chiamata abbastanza significamente denki kamishibai (kamishibai elettrico), diede il definitivo colpo di grazia. Nonostante il passaggio di moda e l’avvento di nuove forme di intrattenimento, ogni tanto capita ancora di vedere alcuni di questi kamishibai, magari in alcune zone di città che cercano di mantenere viva la loro storia recente, oppure in parchi di divertimento dedicati a periodi passati. Ma l’influenza di quest’arte si può vedere anche in altri contesti, ad esempio in molti programmi televisivi per bambini dove le storie ricalcano per stile, immagini disegnate quasi fisse con narrazione molto partecipata, quelle dei kamishibai, oppure anche in certi ambiti dell’animazione sperimentale, decisamente prodotti più per adulti e con contenuti violenti, come nei lavori di Hiroshi Harada quali The Death Lullaby (1985), Midori (1991) o Horizon Blue (2019).

matteo.boscarol@gmailcom

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