Kareem Abdul-Jabbar: «Finalmente emerge un’idea di lotta collettiva»
Blacks Out Intervista con Kareem Abdul-Jabbar, il mito Nba da sempre impegnato politicamente: "Abbiamo visto molte atrocità in passato ma non avevamo mai visto una reazione di questa portata. Quando uno non è libero, nessuno è libero"
Blacks Out Intervista con Kareem Abdul-Jabbar, il mito Nba da sempre impegnato politicamente: "Abbiamo visto molte atrocità in passato ma non avevamo mai visto una reazione di questa portata. Quando uno non è libero, nessuno è libero"
Due metri e 18 e 38.387 punti in 20 anni di carriera, mago dello sky hook e testa pensante della Nba, campione e militante: Kareem Abdul-Jabbar incarna il meglio dello sport americano e afro-americano. A 73 anni rimane presente sulla scena come autore ed editorialista (due volte premiato dal Los Angeles Press Club per suoi corsivi).
L’ultimo, uscito sul Los Angeles Times dieci giorni fa, è stato fra gli articoli che hanno sintetizzato meglio la vertigine di un paese che si trova su un familiare precipizio.
[do action=”quote” autore=”Kareem Abdul-Jabar”]«Il razzismo in America è come un pulviscolo nell’aria. Rimane invisibile finché non fai entrare il sole. Dopo lo vedi ovunque»[/do]
Nell’editoriale si rivolge in particolare ai benpensanti che in quei primi giorni di protesta scuotevano la testa davanti alle vetrine infrante rimproverando: ‘non vi conviene’. «Non avete torto, ma neanche ragione, continua Jabbar, la comunità nera è abituata all’istituzione del razzismo inerente all’istruzione, alla giustizia e al lavoro. E anche se facciamo tutto ciò che ci viene chiesto per favorire una presa di coscienza – firmare saggi articolati e astuti su The Atlantic, fornire spiegazioni nelle interviste alla Cnn, sostenere candidati che promettono riforme – l’ago si sposta a malapena».
Gli atleti afroamericani che dominano lo sport Usa hanno un ruolo storico nella resistenza civile, come ha dimostrato per ultimo Colin Kaepernick, quarterback dei 49ers, che quattro anni fa ha dato vita a una protesta proprio contro gli abusi di polizia. Per diversi mesi Kaepernick si è silenziosamente inginocchiato durante il rituale del inno nazionale.
La tacita protesta gli è valsa il rancore della destra, gli insulti di Donald Trump e infine la radiazione permanente dal campionato.
A vent’anni Jabbar, da poco trasferitosi da Harlem a Los Angeles, dove aveva visto scoppiare le rivolte di Watts (1965), ha rifiutato di andare a prendersi un oro facile nella pallacanestro olimpica ai giochi di Città del Messico. Martin Luther King era stato assassinato da pochi mesi.
Già allora il giovane astro nascente, convertito all’islam come l’idolo, Muhammad Ali, decise che era il momento di decidere da che parte stare. La sua coscienza rimane indomita oggi, in un momento in cui il paese sembra di nuovo in preda ad una convulsione storica.
Come vede il suo ruolo?
Gli atleti neri hanno sempre avuto un ruolo centrale nella lotta per i diritti civili. Guardate Jackie Robinson (interbase dei Dodgers, primo afro americano a giocare nelle leghe bianche di baseball, ndr). Gli sportivi afroamericani hanno sempre lottato in prima linea. A volte con successo, altri sacrificando tutto. Ma continuiamo. Adesso improvvisamente la gente capisce il senso della protesta silenziosa di Kaepernick proprio contro la brutalità omicida della polizia. Vediamo se sapremo dare un senso al suo sacrificio.
Lei era già nella lotta a 21 anni, rifiutò l’Olimpiade in Messico…
Il mio tragitto è iniziato con l’assassinio di Emmett Till (assassinato brutalmente in Mississippi nel 1955, ndr). Avevo 8 anni, domandai ai miei perché l’avessero ammazzato e loro non avevano le parole per rispondermi. Da allora fui deciso a non rimanere vittima delle stesse forze di razzismo e violenza cieca. Una violenza che tutti i neri d’America introiettano sin da piccoli.
Ha conosciuto figure importanti nel movimento per l’emancipazione?
Ne ho conosciuti diversi già ai tempo del liceo – Harlem era un centro di cultura e attivismo. Li ho conosciuto Stokely Carmichael e diversi altri nazionalisti neri. Nella nostra scuola venne a parlare Martin Luther King e io ho potuto incontrarloo, uno dei giorni più importanti della mia vita. Poi Muhammad Ali e Bill Russell che sono stati mie mentori.
Trova diverso rispetto al passato questo movimento di Black Lives Matter?
Storicamente solo i gruppi emarginati avevano un senso concreto degli effetti sistemici del razzismo. Mi sembra che dopo il caso Floyd si stia diffondendo la consapevolezza che tutti siamo alle prese con gli effetti del trattamento iniquo sotto la legge. Non si tratta più unicamente di coloro che ne soffrono direttamente e individualmente, Lgbtq, le donne, ebrei e musulmani…Si sta scoprendo che unendo le forze possiamo essere più efficaci anziché essere gruppi separati. Quando uno non è libero, nessuno è libero, la solidarietà fa la vera forza. E lo vediamo nelle proteste di questi giorni, emerge forse finalmente l’idea di una lotta collettiva.
Perché adesso?
La natura dell’uccisione di George Floyd è stata ineluttabile. Nessuno può negare che si sia trattato di un orribile crimine. Rappresenta l’immagine inconfutabile della repressione violenta cui siamo sottoposti, una violenza storica che prosegue da 400 anni. L’eterogeneità della reazione che prosegue da due settimane è un dato nuovo che mi riempie di speranza.
Qual è secondo lei il ruolo dei bianchi?
I bianchi devono denunciare ciò che vedono. La maggior parte dei bianchi in questo paese non ha un’esperienza diretta di come il razzismo possa rendere orribile l’esistenza. Non è un fenomeno che tange concretamente le loro vite. Ricordo come John Gooden (il leggendario coach di basket di Ucla, ndr) non aveva una concezione di come noi neri che giocavamo per lui fossimo trattati fin quando non viaggiò con noi nelle trasferte di squadra. In quei viaggi udì per la prima volta come ci chiamavano, nigger una cosa che per me era normale fin da quando ero bambino. Allo stesso modo il filmato della morte di Floyd ha cambiato fondamentalmente la percezione di molti. E ringrazio il coraggio della giovane donna che ha realizzato quel filmato.
È ottimista?
È impossibile sapere come si svilupperà tutto questo. Io sono sempre a metà fra speranza e storia, e la nostra storia non depone bene a questo riguardo. Di solito una breve stagione di ottimismo si risolve nel solito nulla di fatto. Ma ciò che ho visto in queste settimane è stato straordinario. Forse stavolta riusciremo a sviluppare la volontà politica necessaria per un vero cambiamento.
Siamo in un anno elettorale…
Sono solo preoccupato che torni a prevalere l’apatia, che la gente non affluisca a votare. Dobbiamo dar seguito a questo movimento con la volontà di esprimere come vogliamo governare questo paese attraverso un concreto processo democratico. Tutti dovremo andare a votare.
Quattro anni fa la maggior parte degli Americani votò contro Trump, eppure…
Il collegio elettorale è un anacronismo. La maggior parte della popolazione americana vive nelle città ma la nostra rappresentanza politica non lo riflette. È un sistema calibrato per distribuire sproporzionatamente potere verso stati con pochi abitanti, dando loro il potere di determinare le sorti del paese, contro la volontà della maggioranza. Dobbiamo trovare il modo di modificarlo ma per ora è l’unico sistema che abbiamo.
E il fattore Trump?
Gli americani hanno testimoniato un obbrobrio ed hanno deciso che questo non deve ripetersi. Gli americani morali hanno risposto in maniera molto positiva. Non è ammissibile che il nostro paese esprima ancora queste cose. La reazione mi ha davvero dato speranza che possa essere così. Abbiamo visto molte atrocità in passato ma non avevamo mai visto una reazione di questa portata. È diverso.
Cosa occorre cambiare?
Il processo ci deve condurre a riformare profondamente il sistema, i sindacati di polizia ne devono fare parte. Prima servono riforme specifiche della polizia e in seguito un processo che riesca ad elaborare l’ostilità e la violenza alla base del razzismo. Dobbiamo trovare il modo di superarle.
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