Venerdì, preghiera di mezzogiorno, moschea affollata: ieri l’ennesima giornata di festa musulmana in Afghanistan è finita in un massacro.

Un’esplosione ha travolto la moschea Guzargah a Herat, nell’ovest del paese. Era piena. Le immagini pubblicate dalle agenzie mostrano corpi mutilati ed enormi macchie di sangue sui pavimenti del cortile. Almeno 18 i morti, 21 i feriti.

TRA LE VITTIME anche Mujib-ul Rahman Ansari, leader religioso noto in tutto il paese per il suo sostegno (della prima ora) al movimento talebano e la sua opposizione all’invasione occidentale e ai governi che ne sono succeduti.

Con i suoi sermoni si appellava a proteste di piazza contro gli eserciti occupanti, oltre a dare voce all’applicazione della più restrittiva «legge» talebana, a partire dall’esclusione delle donne dall’educazione scolastica.

Tanto vicino alla leadership talebana che la sua morte è stata confermata dal portavoce del movimento, Zabihullah Mujahid. Secondo quanto riportato dall’Ap, appena poche ore prima l’attentato, Ansari aveva incontrato ad Herat il vice primo ministro Mullah Abdul Ghani Baradar.

Secondo il portavoce della polizia di Herat, Mahmoud Rasooli, il kamikaze «si è fatto saltare in aria mentre baciava le mani (di Ansari)».

AL MOMENTO nessun gruppo ha rivendicato l’attentato, ma il solito sospetto è lo Stato islamico, nella sua filiale afghana, responsabile di una serie ininterrotta di attacchi dinamitardi e kamikaze, diretti contro la minoranza sciita hazara, ma anche contro esponenti dei Talebani o loro aperti sostenitori.

Come Ansari, che non è certo il primo religioso preso di mira dall’Isis-K: l’ultima volta è successo ad agosto a Kabul, vittima Sheikh Rahimullah Haqqani (nessun legame con la potente tribù colonna portante del movimento talebano, seppur sostenitore del governo islamico), noto critico delle pratiche dell’Isis-K e sostenitore dell’educazione delle donne.

Sullo sfondo restano le difficoltà interne ai Talebani, a partire dalla sicurezza, propagandata come una certezza nell’ultimo anno di ritorno al potere. Attentati scuotono l’intero paese, mentre la repressione governativa colpisce giornalisti, donne, attivisti.