Nelle storie di Kali Fajardo-Anstine la memoria delle generazioni passate si intreccia al presente, le riflessioni e i progetti dei protagonisti all’ascolto dei «segni» della natura, le ferite di vite ai margini o segnate dalla violenza alla gloria di tempi lontani in cui si poteva correre liberi, in simbiosi con la Terra, per praterie o montagne. Dopo la raccolta di storie di Sabrina & Corina (Racconti edizioni, 2021) che le è valsa importanti riconoscimenti letterari, la 37enne scrittrice del Colorado propone con il suo primo affascinante romanzo, Donna di luce (edizioni black coffee, traduzione di Federica Gavioli, pp. 354, euro 18), la storia di una giovane che nella Denver degli anni Trenta si misura con il razzismo e la violenza, attingendo alle tradizioni della cultura indigena la forza che le consenta di affermare la propria libertà. Tra epopea western, indagine di genere e viaggio alla ricerca delle proprie radici, la storia di Luz non smette inoltre, raccontando il passato prossimo d’America, di interrogarne il presente. La scrittrice presenterà il suo libro alla Nuvola dell’Eur a Roma, nell’ambito di «Più libri più liberi», venerdì 8 dicembre (ore 15,30 Sala Antares) con Marta Ciccolari Micaldi.

Per raccontare come è nato questo romanzo, ha spiegato a un quotidiano di Denver che «la mia famiglia non lascia che le storie scompaiano». Partiamo da qui: in che modo gli eventi che sono al centro del libro tornano su una storia famigliare e come sono arrivati fino a lei?
Sono la seconda di sette fratelli di una famiglia multiculturale di Denver, in Colorado. La mia bisnonna, Esther, era nata nel 1912 in un accampamento di minatori di carbone nel sud dello Stato; sua madre era una donna indigena e suo padre un minatore belga. Ciò avvenne dopo che la corsa all’argento e all’oro era finita e il carbone era in forte espansione e attirava uomini da tutto il mondo per lavorare nelle miniere del West. Il «belga» non ha mai sposato la mia bis-bisnonna indigena e i loro figli meticci sono stati lasciati a se stessi dopo che lui abbandonò la famiglia. Ho appreso questa storia, insieme a molte altre, dalla mia bisnonna Esther e da sua sorella Lucy. Sono queste due matriarche che mi hanno ispirato a scrivere Donna di luce. Negli Stati Uniti emerge spesso il desiderio di cancellare storie che hanno a che fare con la complessità: ci viene chiesto di identificarci con unico background etnico e di negare la vasta convergenza culturale e d’origine che si è verificata e si sta ancora verificando nella società americana. Queste donne narratrici hanno raccontato la nostra storia, spesso difficile, come una forma di resistenza. Si sono rifiutate di cancellare la propria identità.

Al centro della storia incontriamo Luz, nella cui figura convergono storia e magia, gli anni ’30, quando è ambientato il romanzo, e l’800. Un personaggio che incarna anche il viaggio attraverso le sue origini che ha compiuto per scrivere il libro?
Ho iniziato a lavorare al libro partendo dalla voce di Luz, quando era solo una bambina di otto anni, che guardava suo padre europeo allontanarsi per sempre. Ma la nostra famiglia non si è estinta dopo quell’abbandono. Questa donna potente è andata avanti e ha creato nuove generazioni, il suo sangue e le sue storie sono così arrivate fino a me. Credo che Luz sia in un certo senso l’incarnazione della resilienza femminile. Affronta la povertà, il sessismo, il razzismo e altre forme di oppressione, ma alla fine prende il controllo della propria esistenza e continua ad avere una vita grande e bella. È il simbolo delle generazioni più anziane della mia famiglia, ma si muove in qualche modo anche in parallelo con la mia vita di scrittrice.

Proprio Luz possiede un linguaggio che non è fatto solo di parole, ma anche di simboli, del significato degli eventi naturali, di storie che si tramandano. Come ha mescolato questi elementi per arrivare alla lingua innovativa e poetica del libro?
C’è stato un momento, mentre scrivevo Donna di luce, in cui ho tentato anch’io di leggere le foglie del tè. In realtà ho usato il caffè, del resto lo fa anche Luz. Sul fondo della tazza ho visto uno stemma, una specie di premio. Non saprò mai cosa significasse, forse era la borsa di studio Guggenheim che mi è stata assegnata per il romanzo, o forse non era niente, ma penso che la capacità di assegnare un significato a un simbolo astratto faccia parte del lavoro della scrittrice. È nostro dovere come artisti prendere il caos del mondo e dargli ordine e significato.

I suoi antenati si sono trasferiti dal New Mexico al Colorado meridionale e poi a Denver, dove è cresciuta. Quella che ha raccontato nel libro è anche un’inedita epopea western?
È opinione diffusa che il West fosse un paesaggio arido e insidioso, colonizzato dai bianchi dopo la distruzione delle tribù dei nativi americani. Le persone come me che provengono da un lignaggio misto che è sia nativo americano che europeo (sono anche in parte filippina) vengono cancellate dalle narrazioni popolari sul West. E questo, anche se in realtà costituiamo un’enorme parte della popolazione in zone come New Mexico, Colorado, Arizona, Wyoming e anche altrove, nei deserti come sulle montagne. Sebbene esistano molte famiglie come la mia, non disponiamo ancora di un corpus letterario ampio che documenti la nostra cultura nel West. Ho ricevuto molti messaggi da lettori che affermano che i miei libri (sia Sabrina e Corina che Donna di luce) li fanno sentire riconosciuti. Quando ho iniziato a scrivere, il mio obiettivo principale era far sentire gli altri meno soli. Spero di esserci riuscita.

I personaggi del romanzo hanno un rapporto speciale con la natura, con la terra in cui vivono. Un legame a cui guarda con interesse anche lei…
C’è una scena ambientata durante l’infanzia di Luz nei primi anni ’20. Lei e suo fratello Diego stanno giocando in montagna vicino alla capanna dell’azienda nei pressi di una miniera di carbone nel Sud del Colorado. Diego è alla ricerca di un serpente a sonagli, Luz scappa dalle vespe e tutt’intorno ci sono fiori di campo e i suoni musicali offerti da un fiume impetuoso. Paesaggi del genere sono radicati nella mia esperienza di essere umano. Considero la natura viva. Quando sono triste o sto lottando contro la depressione, è la terra che mi può guarire con il suo abbraccio. Così faccio un’escursione, una passeggiata nella prateria, mi reco al fiume o nei luoghi preferiti di mio nonno in montagna. Per questo che i paesaggi che descrivo sono così vivi: per me la terra è famiglia.

Nel libro descrive una marcia del Ku Klux Klan nel centro di Denver nel 1934 e spiega, attraverso lo sguardo inquieto di Luz, come si trattasse di un fenomeno di massa, con intere famiglie che marciavano indossando tuniche e cappucci: uomini, donne e bambini: i «fascisti della porta accanto» con il loro carico di odio. Oggi in Colorado si ricorda quella stagione?
Sono cresciuta ascoltando storie sul Ku Klux Klan, ma per comprendere appieno l’orrore di quel periodo ho condotto ricerche negli archivi locali. E sono rimasta scioccata esaminando le tuniche del Klan che sono state conservate. C’erano molte taglie, alcune anche per bambini e neonati. Mi sentivo come se mi fossi imbattuta in una pelle di serpente secca, sapendo che un intero nido di serpenti vivi non poteva essere molto lontano. In Colorado, il Klan terrorizzava molti gruppi, dai neri agli italo-americani, ai cattolici, agli indigeni e ai messicani, agli asiatici e così via. A causa della natura del potere e della ricchezza, molte delle vecchie famiglie del Klan ricoprono ancora ruoli di leadership in tutto lo Stato. La città di Central Park, ad esempio, ha cambiato nome per prendere le distanze dal nome Stapleton (che era sindaco di Denver e membro del Klan). Le istituzioni devono lavorare per fermare la celebrazione delle famiglie del Klan, riconoscendo allo stesso tempo questo orribile passato invece di nasconderlo sotto il tappeto. Spero che un libro come il mio aiuti in questa direzione.

Il suo romanzo racconta una pagina per molti versi scomoda, della storia e dell’identità americane. Tra coloro che boicottano i libri, soprattutto negli Stati del Sud, c’è chi non vorrebbe che una storia del genere fosse pubblicata. Cosa pensa di questa crociata reazionaria e ritiene che il suo libro rappresenti un antidoto al veleno razzista?
Negli ultimi due anni ho insegnato Scrittura creativa presso la Texas State University e il Texas è lo Stato leader nei divieti dei libri che ritengo siano pietosi (ma coloro che vietano i libri, li leggono?). Ma qui ho anche avuto modo di ascoltare un intervento su questo tema di una storica della comunità nera di nome Valore Lott. Ci siamo incontrate in una piccola cappella di una sezione del cimitero costruita sopra tombe povere, senza targa, insieme ad un piccolo gruppo di anziane donne nere. Parlando dei divieti sui libri, sono rimasta colpita dalla loro saggezza. «Dobbiamo avere delle biblioteche domestiche», hanno detto. «Non possiamo dipendere dallo Stato per l’istruzione delle nostre famiglie. Dobbiamo tenere i libri in casa». Sono d’accordo con quelle donne: se lo Stato ha i propri progetti in materia di identità nazionale e di come narrarla, bisogna comprare i libri e conservarli in casa per offrire alle nostre famiglie le parole che non potranno mai ascoltare nelle scuole pubbliche.