Visioni

Kafka a Teheran, l’Iran allo specchio davanti alla macchina da presa

Kafka a Teheran, l’Iran allo specchio davanti alla macchina da presaUna scena da «Kafka a Teheran»

Al cinema Ali Asgari e Alireza Khatami in nove storie e con molto umorismo denudano i paradossi del regime. Un coro di più generazioni, ambienti, situazioni, l’assurdità del potere, il controllo di ogni spazio vitale

Pubblicato circa un anno faEdizione del 5 ottobre 2023

A Teheran tutto è difficile, anzi impossibile. Non solo i «grandi sistemi» ma anche le cose ordinarie, banali – seppure importanti – quali scegliere il nome al proprio figlio o prestare la macchina al proprio fratello – se questi ha i capelli un po’ più lunghi del consentito. Si cade in contenziosi infiniti e senza senso con la «legge», che sono implacabili, e in cui ogni parola, frase, sospiro rischiano di peggiorare la situazione. Perché qualsiasi risposta spalanca la via a altre persecuzione, a nuove accuse rispetto alle quali diviene impossibile difendersi. Anche se non c’è nulla da cui farlo.

Kafka a Teheran, presentato al Certain Regard del Festival di Cannes 2023 dove è arrivato senza il permesso delle autorità – e ora in sala grazie a Academy Two – sin dal titolo scelto per l’edizione italiana – rispetto all’internazionale Terrestrial Verses, da un verso di Forough Farrokhzad – illumina con precisione il funzionamento di un regime assoluto quale è quello iraniano, che soffoca letteralmente i suoi cittadini con macchine di controllo senza volto togliendoli ogni libertà, e con motivazioni alle quali non si può opporre niente perché appunto non si sa mai di cosa si è accusati. È una trama ambigua che permea l’intera società, modella le teste, le abitudini, i sentimenti per difendersene non si può che diventarne partecipi, usare gli stessi mezzi, ricattare per non subire ricatti. O ribellarsi come accade in Iran da un anno, da quando Mahsa Amini è stata uccisa per qualche capello fuori dallo hijab.

A FIRMARE Kafka a Teheran sono Ali Asgari e Alireza Khatami, quest’ultimo è volato in Canada – fare film con la censura gli era diventato impossibile – mentre Asgari è ora bloccato in Iran col passaporto sotto sequestro, il divieto di viaggiare e di girare. L’ennesima prova di forza del regime. In nove episodi con umorismo dell’assurdo il funzionamento del potere iraniano e dei suoi abusi viene esplorato da più punti di vista che riflettono divieti, generazioni, ambienti. Da una parte i cittadini, dall’altra gli inquisitori che rimangono fuoricampo – ne ascoltiamo le voce in un «copione» che si presenta simile.

Controllo, persino in casa non si sfugge. «Cosa è lo spazio privato?» chiede una ragazza accusata di essersi fatta cadere il velo in automobile. In apparenza non c’è. Vuoi chiamare tuo figlio David in omaggio allo scrittore prediletto di tua moglie? Vietato. Meglio un nome sacro e soprattutto iraniano (ma se è arabo va bene lo stesso), quello è invece un nome straniero e se un povero ragazzino deve essere condannato per la vita a un nome assurdo poco importa. Una ragazza viene accusata di essere arrivata a scuola in moto con un ragazzo. Il custode è cieco replica alla dirigente. Vede ciò che deve è la risposta. E che accade però se anche lei, la voce del potere, ha qualche segreto da occultare?

Un regista cerca di far passare la sua sceneggiatura che gli viene smantellata punto dopo punto, una ragazza guidatrice di taxi di mantenere la sua automobile con cui lavora, una signora cerca il suo cane portato via perché «impuro» («Si prenda un canarino»), una bambina che vuole solo ballare con Tik Tok per la cerimonia della scuola viene «inghiottita» da strati di veli. Un’altra ragazza a un colloquio di lavoro è sempre più molestata da colui che deve assumerla («È fidanzata? Ha il ragazzo? Mi dia la mano…). Contraddizioni, assurdità che si nutrono delle esperienze quotidiane raccolte dagli autori per restituire una narrazione collettiva dalla nascita alla morte.

Asgari e Khatami scelgono un dispositivo semplice e per questo potente nel quale i dialoghi sempre molto vivi, infiniti, punteggiati da estenuanti trattative ci dicono che il concetto di «verità» non esiste, non almeno se inteso come un patto reciproco di fiducia e di senso. Quando la ragazza nega di avere il ragazzo mente e va punita. E al momento che lo ammette va punita lo stesso. Se il film lavora su una ecessità di resistenza politica – che si fa universale e interroga appunto ogni governo che poggia sulla capillare oppressione – i registi sanno trasformarla anche nella scommessa di trovare la grana giusta per un cinema politico capace di dialogare col proprio tempo e di inventarsi in questo confronto.

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento