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Jyoti Mistry, nel mezzo della lotta, il tempo per l’amore

Jyoti Mistry, nel mezzo della lotta, il tempo per l’amore

Intervista L’ultimo film della cineasta sudafricana, dopo la prima a Locarno, arriva al Filmmaker Festival di Milano: «Loving In Between», film-saggio sulla sessualità gioiosa

Pubblicato 11 mesi faEdizione del 18 novembre 2023

«Nascere è difficile, morire è orribile. Dai a te stesso un po’ di amore nel mezzo». Con questi versi di Langston Hughes inizia Loving In Between, l’ultimo film di Jyoti Mistry che, dopo la prima a Locarno, arriva a Filmmaker Festival venerdì. Quasi un saggio musicale sulla sensualità, il lavoro di Mistry – regista sudafricana classe 1970, una carriera a metà strada tra la macchina da presa e l’accademia, è infatti anche professoressa all’Università di Johannesburg – mette al centro l’aspetto giocoso dell’erotismo, superando ogni immagine stereotipata o morbosa della sensualità. Si viene trascinati in una danza di materiali d’archivio – momenti più o meno intimi condivisi in spiaggia, per strada, in casa – in cui emergono molte domande: i modi di amarsi sono cambiati nel tempo? Quanto c’è di animale nell’essere umano? C’è stato realmente un progresso nella libertà sessuale? «Con questo film provo a fare qualcosa di gioioso nel mezzo della follia di questo mondo» spiega Mistry, e il gesto è ancora più forte se pensiamo che Loving In Between è l’ultimo capitolo di una trilogia incentrata sulla violenza strutturale della società nei confronti delle donne e delle persone di colore. Abbiamo raggiunto la regista con una videochiamata.

Questo film sembra prendere un’altra direzione rispetto ai due precedenti, è così?
Il fatto è che non si può lottare tutto il tempo. C’è un passaggio bellissimo dello scrittore sudafricano Njabulo Ndebele, a cui sono molto legata, che racconta di come durante l’apartheid la vita era difficile e si lottava duramente, ma le persone trovavano comunque il tempo e lo spazio per ascoltarsi l’un l’altro, per ballare e soprattutto fare l’amore. La causa per cui lottare è sempre lì, ma dobbiamo anche vivere le nostre relazioni tra esseri umani con intimità. Certo, siamo oppresse come donne, siamo oppresse come minoranze o in quanto migranti e rifugiati. Ma non si possono passare ventiquattr’ore al giorno a pensare alla propria oppressione. In questo senso, riuscire a trovare la gioia, a festeggiare nonostante i problemi di cui siamo coscienti, per me è un gesto di resistenza.

Quale idea dell’amore vuole veicolare con il suo film?
Sappiamo che non è tutto rosa e fiori, è un’esperienza che comporta anche conflitti, inoltre vi è violenza in chi si può amare e come: Stato, scienza, religione regolano la condizione umana e in maniera specifica la sessualità. Ma spesso, all’opposto, viviamo una sorta di «disneyficazione», un uso commerciale delle relazioni. Chiunque è stato innamorato sa che l’amore è qualcosa di agrodolce e di non semplice. Tutti vogliamo delle relazioni felici, ma non possiamo far finta che non ci siano determinate condizioni e conseguenze; si tende però ad eclissare il lato doloroso perché siamo influenzati da un’idea romantica forgiata dal capitalismo, come se si trattasse di aprire una scatola di cioccolatini e il gioco è fatto. Ma nonostante tutto ciò ho pensato che Loving In Between dovesse essere un film gioioso perché parla della capacità dell’amore di essere una forza trasformatrice.

Il titolo del film deriva da una poesia di Langston Hughes, quale ispirazione ne ha tratto?
Ciò che mi piace della poesia di Langston Hughes è che è così semplice in superficie. Ma tenendo presente la sua sessualità in quanto uomo nero gay, penso che il suo gioco sull’«in between» tratti proprio di questo. Parla dell’in-between tra vita e morte, ma nel suo lavoro particolare con il linguaggio, sta già suggerendo il fatto che dobbiamo celebrare l’in-between delle categorie della sessualità. L’idea di queering è molto importante per me, così come la liminalità e il «terzo spazio» di Homi Bhabha. Lì qualcosa di nuovo può accadere perché la realtà non è prefissata in una categoria. Volevo rendere quest’ idea dell’in-between in maniera meno accademica, penso poi che l’espressione sia bella perché implica anche un certo tipo di movimento.

Il film infatti ha una grande musicalità, che non riguarda solo i brani scelti ma anche il ritmo del montaggio.
Sì, credo che anche le voci di Napo Masheane e Kgafela oa Magogodi facciano molto, e poi c’è questo «diggy diggy doo» che mi ha dato grande ispirazione: a volte quando non si riesce ad esprimere qualcosa a parole, serve un riff jazz per dire «mi sento diggy doo» e a quel punto non si può che sorridere perché in effetti può voler dire qualsiasi cosa.

Spesso pensiamo di avere più libertà sessuale in questo periodo storico, ma guardando le immagini che utilizzi otteniamo un’altra impressione.
Sì, l’idea è che stiamo evolvendo nella nostra sessualità, principalmente perché ora abbiamo il permesso di parlarne apertamente. Ma ciò non significa che eravamo meno sperimentali o fantasiosi sessualmente in passato. Penso che questo sia l’errore che spesso commettiamo nel nostro pensiero. Ovviamente celebriamo i diritti umani perché rappresentano realmente un’evoluzione, ma riguarda principalmente come abbiamo parlato del sesso nella sfera pubblica. Pensiamo al movimento Lqbtqi+ come a un insieme di diritti sessuali piuttosto che all’espressione di atti privati. Sono molto interessata a questo scivolamento che c’è tra il privato e il pubblico. Riguardo ai materiali, ho stabilito una relazione con gli archivi sin dal 2015 quando ho iniziato le mie ricerche per When I Grow Up, I Want to Be a Black Man. Gli archivisti vedono cosa mi interessa, di cosa sono curiosa e cosa non ho paura di guardare. Posso valutare la portata etica di qualcosa solo se so di cosa si tratta, quindi non censurarsi prima di aver visto, cosa abbastanza comune, è davvero molto importante.

Nel film ha inserito poi diversi elementi d’animazione, perché?
L’animazione mi ha permesso di stabilire un dialogo con i materiali, come se potessi «scrivere» all’interno dei filmati d’archivio, o parlare alle immagini nel linguaggio delle immagini. È un modo per innescare una conversazione, per rispondere alla traccia che queste persone ci hanno lasciato. Lo vedo come un regalo, ci hanno donato qualcosa della loro vita, e allora mi chiedo: come usarlo senza sfruttarlo? Inoltre l’animazione è una caratteristica che lega i film della trilogia, insieme a una riflessione sulla violenza.

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