Sovvertimenti epocali segnano i pochi decenni della vita di Hegel: Illuminismo, Rivoluzione francese, ascesa e caduta del dominio napoleonico, balzo in avanti della rivoluzione industriale e scientifica. A Hegel sembra che la storia del mondo abbia calzato «gli stivali delle sette leghe» per correre a valanga verso la società moderna, abbattendo barriere e lasciandosi alle spalle forme e iniquità dell’antico regime. Perciò, ha la motivata convinzione di vivere gli anni «più ricchi che la storia universale abbia avuto».

Il contributo tedesco a quest’epoca di rivolgimenti – nel 1801, la Germania è ancora costituita da 360 staterelli, che diventeranno 36 nel 1815, dopo il Congresso di Vienna – si produce sul piano del pensiero e in una direzione divergente rispetto a empirismo e materialismo di marca inglese e francese. A cavallo del secolo, e in successione rapidissima, vengono elaborati sistemi che mettono al centro del mondo la coscienza, il soggetto, il pensiero e lo spirito. Ne sono protagonisti Kant, Jacobi, Reinhold, Fichte, Schelling, Hölderlin, Hegel. È  l’idealismo: una rivoluzione filosofica.

La mongolfiera di Goya in volo su un drammatico paesaggio popolato di eserciti (ora al Musée des Beaux-Arts di Agen) si offre come figura di questo nuovo sguardo prospettico, rivolto da un’altezza che consente di osservare il mondo e i suoi conflitti come un organismo unitario e di comprenderne il senso. Non a caso, il dipinto figura in copertina, quale programma visivo, sul libro con cui l’anno scorso Jürgen Kaube ha vinto il premio tedesco per la saggistica, Il mondo di Hegel (traduzione di Monica Guerra, Einaudi, pp. 499, € 35,00).

Si respira, in queste pagine, il clima di Hegel Renaissance che da qualche tempo ha preso a soffiare, dopo la lunga ripulsa del mondo anglosassone, liberando il filosofo tedesco dai giudizi che lo volevano campione di una filosofia antirealista e antiscientifica, ostaggio di fumisterie metafisiche.

Kaube fa esplicito riferimento a Pirmin Stekeler, Robert Pippin e soprattutto a Terry Pinkard, «il biografo americano di Hegel», che nel suo libro dedicato al Filosofo della ragione dialettica e della storia (Hoepli 2018) restituisce il ritratto di un pensatore incalzato ma non travolto dai rivolgimenti della storia e orientato, piuttosto, a elaborare strumenti intellettuali per governarla. Nel suo celebre commentario alla Fenomenologia, che è parso a molti il manifesto della svolta intersoggettiva e pragmatica dello Hegel americano, Pinkard gli attribuisce lo spostamento decisivo della ragione dall’area del soggetto, in cui l’aveva collocata Kant, al campo conflittuale della socialità e alle sue dinamiche di reciproco riconoscimento (La Fenomenologia di Hegel. La socialità della ragione, Mimesis 2013).

Sulla base di una vasta documentazione coeva e di un’avvertita bibliografia critica, Jürgen Kaube – che è anche condirettore della Frankfurter Allgemeine Zeitung, il principale quotidiano conservatore tedesco – congegna una brillante biografia in context, né accademica, né divulgativa che sembra avere l’ambizione di rendere Hegel attuale.

La sua penna ironica, agile, mai professorale ha un ruolo non accessorio nell’impresa, riuscendo a vivacizzare una vita in sé poco avventurosa con il racconto degli scogli che il protagonista dovette superare e soprattutto restituendo la temperatura delle dispute intellettuali attraverso il commento in diretta di alleati e rivali, testimonial e influencer, tutti stretti in una rete di connessioni epistolari tali da ingelosire i nostri social.

A Stoccarda, dove nasce, a Tubinga dove studia, e poi nei lunghi anni di precariato tra Berna, Jena, Bamberga, Norimberga, Heidelberg prima della sistemazione definitiva all’Università di Berlino (a 48 anni!), il mondo di Hegel è presentato, anzitutto, come ancora parte dell’antico regime, dove il posizionamento personale nelle cerchie è cruciale: per trovare un lavoro, una moglie, un editore, per avanzare come per arretrare.

Kaube mette a fuoco questi mondi locali e i loro prolungamenti da una distanza molto ravvicinata, che gli consente di descriverne gli attori come personaggi e quasi di sentirne le voci. Il cast di Jena è particolarmente significativo: Hegel si esprime male, nello scritto e anche nell’orale, come già sapevamo, tra gli altri,  da Jacobi, che ne scrisse a Reinhold («Se solo quel maledetto Hegel scrivesse meglio; faccio spesso fatica a capirlo»), da Goethe che lo comunica a Schiller.  («È una persona eccellente, ma troppo impacciato nell’esprimersi»), oltre che da una lunga serie di studenti.

Nel 1801, quando Hegel vi arriva da Berna dove si era guadagnato da vivere come istitutore di due bambini, Jena è una cittadina di 5000 abitanti e una densità intellettuale impressionante: Fichte, accusato di ateismo, se ne è appena andato, i fratelli Schlegel animano degli inquieti «festini» romantici, qua e là compaiono Novalis e Tieck, mentre Schelling spopola. La produzione di duelli intellettuali d’avanguardia è rigogliosa.

A quel tempo, Hegel ha letto molto, scritto poco e pubblicato nulla, diversamente da Schelling e Hölderlin, suoi sodali al seminario di Tubinga, che traboccano di idee e pubblicazioni. Ma è a Jena – titola un capitolo del libro – che «Hegel diventa filosofo».

Kaube segue da presso le tappe della sua lenta ruminazione per pervenire ad «apprendere il proprio tempo in concetti», opera dopo opera, centrando spesso l’obiettivo di rendere il portato di scritti notoriamente astrusi e talora difficilissimi in un frasario aforistico e piano.

«A Jena Hegel avvia la critica dell’unilateralità. Se si parte dalla coscienza, dalla natura, dalla morale o dall’arte – pensa – non si arriverà mai a una filosofia del tutto… L’Assoluto, ovvero ciò che può essere spiegato solo mediante se stesso, non mediante qualcos’altro – scrive Hegel – non è la causa di una serie di principi, ma un sistema. Significa che non si può osservare, né dedurre il mondo, lo si può solo ricostruire».

Le incursioni di Kaube negli scritti di Hegel sono tanto più stimolanti quanto più sono agganciate alle nuove letture americane: così, una delle più celebri figure della Fenomenologia dello spirito, l’opposizione tra signore e servo, filtrata espressamente attraverso l’opera del filosofo statunitense Robert B. Pippin, ricompare come tappa di un percorso di autocoscienza che trova la sua origine nel desiderio – il desiderio animale di restare in vita. «La coscienza, in quanto attenzione riflessa, è una funzione dell’autoconservazione di un essere vivente… Nell’autocoscienza c’è quindi sempre, per Hegel, anche un riferimento alla specie, dunque a caratteristiche dell’Io che è Noi». Da qui, il cammino della coscienza verso la conoscenza di sé prosegue fino alla lotta sociale che si accende per il desiderio di essere riconosciuti dagli altri. «Vincendo nella lotta per l’onore, un uomo guadagna la condizione di signore. In seguito, però, il servo si sviluppa ulteriormente, il signore no… L’uno, lascia presagire Hegel, cambia il mondo, l’altro vi si sistema un po’ troppo comodamente, quasi come una belva senza nemici naturali. Ottiene riconoscimento, certo, ma non vale molto, perché è estorto con la forza». Tanto basti per suggerire che l’attualizzazione di Hegel è qui anche una dismissione dei suoi abiti in foggia marxiana.