Nel racconto di Edgar Allan Poe «Il barile di Amontillado» la vittima chiede al protagonista e suo futuro assassino – che lo sta scortando nei meandri delle proprie cantine al solo scopo di murarlo viva in una nicchia – se per caso non sia un fratello «muratore», alludendo alla massoneria. Con umorismo omicida, l’altro risponde mostrando la cazzuola che teneva nascosta sotto il mantello, fingendola un segno di appartenenza, ma anticipando in realtà le sue drammatiche intenzioni: costruire un vero muro, tutt’altro che metaforico, e rinchiudere per sempre il suo avversario nei sotterranei.

L’ironia minacciosa di questa scena si ritrova in molti dei primi scritti di Julio Cortázar, che cita il testo di Poe in un racconto giovanile confluito nella prima raccolta alla quale lavorò in modo sistematico, senza tuttavia darla mai alle stampe: la titolò La otra orilla (L’altra sponda) e consiste di un assemblaggio di storie brevi scritte tra la fine degli anni trenta e la metà dei quaranta, poco prima di dedicarsi al suo esordio, Bestiario, che nella edizione argentina del 1951 comprendeva anche un racconto, «Casa occupata», prelevato dalla raccolta precedente in una versione quasi identica (poi incluso nella Antologia della letteratura fantastica a cura di Borges, Bioy Casares e Ocampo).

Già nella Pléiade
Pubblicato in tutto il mondo soltanto alcuni anni dopo la morte dell’autore, La otra orilla venne incluso da Einaudi-Gallimard nella edizione onnicomprensiva dei Racconti (collana italiana della «Pléiade»): esce adesso, per la prima volta in Italia come volume a sé stante, L’altra sponda (Einaudi, traduzione già esistente di Stefania Fabri, prefazione di Jaime Riera Rehren, pp. 126, € 17,50) nella collana delle «Letture». La presenza in libreria dell’opera prima di Cortázar, come titolo autonomo, permette di rendere più evidente la vorticosa evoluzione autoriale dello scrittore argentino, che passò dalla elegante, elusiva sfericità dei migliori testi di Bestiario (1951), alla incorporea levigatezza dei capolavori di Fine del gioco (1956), immersi in un rarefatto habitat iperletterario, per approdare ai racconti di Le armi segrete (1959), che contiene «Il persecutore», autentico rito di passaggio a un più «materico» Cortázar, promesso a una nuova densità narrativa, la cui massima fioritura si sarebbe realizzata di lì a poco in Rayuela (1963).

Forse proprio il livello diseguale dei testi confluiti nell’Altra sponda ne accentua l’interesse: accanto al puro racconto-scherzo o a quello che Todorov avrebbe definito fantastico «meraviglioso» (con tanto di vampiri e streghe innamorate), alcune pagine lasciano trapelare il febbrile lavorìo di una officina letteraria appena avviata, ma già a uno stadio di avanzamento allarmante. I racconti sono ordinati in tre diverse sezioni, che non rispondono a un criterio cronologico, bensì di affinità.

Nella prima sezione della raccolta, «Plagi e traduzioni», compaiono i numerosi riferimenti a Poe, ma per il giovane sperimentatore il maestro americano sembra più un talismano da strofinare che un riferimento letterario. Nelle postille intitolate «Alcuni aspetti del racconto», incluse nella edizione italiana di Bestiario, Cortázar confronta il proprio lavoro con quello dell’autore di Il pozzo e il pendolo, parlando di «racconto come terapia», e come riscrittura a partire dalle tracce di una «esperienza psichica» che avverrebbe «al margine della mia volontà, al di sopra o al di sotto della mia coscienza raziocinante».

Agli antipodi di Poe, il Cortázar di queste note sembrerebbe dunque calato in quella specie di «fine frenzy» vagamente romantica che Poe dileggia senza remore nella Filosofia della composizione. Se Cortázar scrive che «Casa occupata» viene da un sogno, come tanti racconti di Poe, è pur vero che tra gli incubi dei due scrittori c’è di mezzo Freud, certamente tra le letture del giovane scrittore argentino. Molti dei racconti di Bestiario si possono leggere come maschere allegoriche del disagio psichico, ciò che difficilmente può valere per i racconti di Poe. Ma, al di là dei proclami di poetica, è l’intensità del racconto – spoglio quasi del tutto di elementi intermedi, dettagli d’ambiente, dialoghi interlocutori – a costituire il rimando più chiaro a Poe: i personaggi si stagliano su uno sfondo non ben definito, vale a dire l’esatto contrario di quanto avverrà nelle raccolte successive di Cortázar, spesso affollate di nomi, strade e cose di Buenos Aires o di Parigi.

Così come diverso, rispetto alle pagine di Bestiario e Fine del gioco, è il ritmo della prosa: in L’altra sponda manca quella attitudine alla ripetizione, alla ridondanza un poco angosciante che Cortázar dissemina in alcuni momenti chiave assecondando la propria inclinazione musicale, spesso a coprire, stendendo un illusorio tappeto di foglie sintattiche, un vuoto di informazioni diegetiche che in realtà spalanca una botola sotto i piedi del lettore. In L’altra sponda questo effetto si produce di rado, e con minore grazia, in racconti più ermetici che ellittici («Puzzle», «Distante specchio»). Un tocco di levità screziata di ironia stempera quasi sempre i primi «incubi» di Cortázar, i cui personaggi volentieri ricorrono all’«enigma della cazzuola» (in «Puzzle», per esempio, con il cognato fatto a pezzi e usato per condire una zuppa).

Relazione intermedia
Già pronto, nella cucina dello scrittore argentino, è invece quel procedere per sovrapposizioni – compositive, narrative, sensoriali – che negli anni cinquanta arriverà al suo culmine: nei casi più riusciti, anche in L’altra sponda il racconto tesse una sorta di «relazione intermedia» tra stati della materia e della mente, e insistendo sulla idea di una interposizione della parola tra i mondi possibili – come un ponte, come una scala – disegna una nuova, pretestuosa geografia del percepibile, lasciando deliberatamente intravedere, attraverso dettagli molto vividi e però incongruenti, che i lembi non combaciano perfettamente: insistenze di uno strato psichico che la mente non è riuscita a occultare del tutto, invasione e materializzazione del perturbante nella falsa quiete del mondo reale. Del resto, ancora negli «Aspetti», lo stesso Cortázar individuava il posizionamento liminare dei suoi racconti, e forse di se stesso come autore, quando diceva: «Scrivo da un interstizio»: frase che, in fondo, potrebbe testimoniare di una riconciliazione letteraria con Poe, l’invocato maestro della prima ora.