Julien Gracq, pseudonimo di Louis Poirier (1910-2007), originario della Loira, considerato l’ultimo dei classici, era un anonimo insegnante di storia e geografia nei licei, il cui profilo tagliente e irregolare ricordava quello di un uccello notturno. La sua carriera è costellata di piccoli capolavori che andrebbero opportunamente ristampati, tra i quali ricordiamo Un balcon en forêt (1958) e La presqu’île (1970), vòlti in italiano, in tempi non sospetti, rispettivamente da Serra e Riva ed Einaudi. La sua prosa è stata definita «più esatta di Chateaubriand, più musicale di Stendhal, più sensuale di Proust».

Gracq, appartato e discreto, ebbe un momento di notorietà quando rifiutò il prestigioso premio Goncourt, assegnatogli per il romanzo Le rivage des Syrtes, pubblicato nel 1951 da José Corti, editore che operava nell’orbita dei surrealisti e che stampò tutti i suoi libri. Il clamore suscitato dalle sue prese di posizione eretiche e dall’atteggiamento critico nei confronti di Sartre e dell’esistenzialismo superò in quel frangente i confini nazionali: la Mondadori allestì nell’arco di breve tempo la versione italiana di La riva delle Sirti, affidandola a uno specialista come Mario Bonfantini, dalla quale Luciano Chailly trasse un’opera lirica: il libro, uscito nel ’52 nella collana della Medusa, è stato proficuamente riproposto qualche anno fa dall’Orma, a cui dobbiamo la riscoperta di due titoli come Acque strette (2018) e Libertà grande (2021).

La scelta di rivolgersi a un piccolo editore come Corti presupponeva un intento polemico, in quanto Gracq rinnegava le regole imposte dal mercato, sempre più orientato a soddisfare le richieste di un pubblico improvvisato che andavano a discapito della qualità del testo. Oltretutto lo scrittore si era visto opporre da Gallimard il rifiuto di pubblicare il suo libro d’esordio e solo quando questi deciderà di allestire il progetto delle sue Œuvres complètes, apparse, a cura di Bernhild Boie, in due volumi nella collana della Pléiade tra il 1989 e il 1995, cederà controvoglia alle sue lusinghe.

Nel 1950 Corti aveva licenziato il pamphlet La littérature à l’estomac, dura requisitoria contro il mondo editoriale che presenta risvolti quanto mai attuali e in cui sembra che le vicissitudini descritte più sopra si ergano a emblema della concezione critica adottata dall’autore nei confronti del sottobosco letterario. In un’intervista dichiarò: «Il premio Goncourt ha alterato tutto. Di norma, dovrei essere sconosciuto, misconosciuto. Ciò che mi converrebbe meglio, dopo tutto». De Piante propone ora una nuova traduzione del libello, affidata a Émile Ronìn, il cui titolo La letteratura da voltastomaco Una polemica (pp. 88, € 16,00) risulta meno elegante ma più aderente all’originale rispetto a La letteratura senza vergogna, versione allestita da Aldo Pasquali nel 1990 per Theoria (da ricordare anche, a cura dello stesso traduttore, Letterine, singolare brogliaccio ricco di multiformi annotazioni, spesso dal tono aforistico, che Theoria stampò l’anno precedente). Il pamphlet fu anticipato nel gennaio 1950, grazie ad Albert Camus, sulla rivista «Empédocle», che nel numero successivo pubblicò anche una breve nota dell’autore, qui regolarmente accolta.

Gracq disquisisce intorno ad alcuni aspetti del malcostume letterario consolidatosi intorno alla metà del Novecento: la quantità di pubblicazioni, spesso inutili, che ammorba il mercato, sovrastando in maniera disarmante la qualità («darei quasi tutta la letteratura degli ultimi dieci anni per un solo libro poco conosciuto di Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo»), il mastrino dei favori reciproci, la deriva edonistica di scrittori avallata da un sistema consumistico teso a privilegiare quello che Gracq definisce «spettro infraletterario» riguardante la divulgazione di un’opera: premi, interviste, congressi, presentazioni radiofoniche ecc. L’atteggiamento di Gracq non è misoneista né filoneista, poiché tende a contestualizzare il problema espressivo in ambito socioculturale senza perdere quella visione d’insieme severa e obiettiva che gli permette di paragonare i critici, con una metafora dalla forte valenza icastica, a «fantini del Gran Premio nell’atto di cavalcare delle lumache». Si cerca anzi di rapportare tale problema alle differenti implicazioni offerte da un fruitore coinvolto in quel «cursus honorum disseminato di trappole e di espedienti, che rendono la vita letteraria francese così scarsamente eccitante».

Goffredo Fofi nella prefazione considera il pamphlet di Gracq alla stregua di «una dichiarazione di guerra contro la letteratura del dopoguerra», contro una deriva letteraria che segue rituali e convenzioni dissennate, prefigurando tematiche che saranno affrontate, in maniera più dettagliata, da Debord in La società dello spettacolo (1967). E non è un caso che lo stesso Fofi abbia redatto la nota critica di Nel castello di Argol, il romanzo d’esordio accolto da Bompiani nel 1968 nella collana di letteratura fantastica «Il pesanervi», curata da Ginevra Bompiani e Giorgio Agamben, dove Gracq e un altro outsider come Pieyre de Mandiargues convivono con Beckford, Meyrink, Jarry, Bierce. D’altronde il retroterra culturale di Gracq è piuttosto vario e sfaccettato: dalla frequentazione con Breton, a proposito del quale scrisse anche un’importante monografia, alle suggestioni derivate da Poe, Verne e il romanzo gotico, per passare al sole del Graal che si dissolve nelle brume wagneriane nonché all’ammirazione per il succitato Jünger. Ma si tratta di ascendenze che risultano ondivaghe: il retaggio surrealista, per esempio, si manifesta nella variabile di una rêverie ancora ottocentesca, dove intervengono palesi elementi di disturbo. Non è un caso che Fofi parlasse di un anomalo paesaggismo che rimanda alla lezione di De Chirico, Magritte, Max Ernst, finanche a quella del precursore Piranesi (potremmo includere in questo elenco anche un artista eccentrico come Lequeu).

L’eleganza della sua prosa, coniugata a un’inoppugnabile sobrietà, si contrassegna come uno dei risultati più alti raggiunti tra l’entre-deux-guerres e il secondo Novecento, essendo la sua scrittura permeata di un rigore cartesiano che si contrappone apertamente alle regole sregolate dell’automatismo in cui eccelsero figure del calibro di Desnos e Crevel. L’affabulazione di Gracq, nonostante la varietà dei generi affrontati, si configura come una sorta di fil rouge che accompagna per mano il lettore attraverso uno stile piano ma sorvegliatissimo, apollineo, anche se infarcito di topoi letterari: qui si chiamano in causa, oltre a una serie di autori ormai dimenticati, Simone de Beauvoir, Elsa Triolet, Guillevic, Duhamel, Genet («le scritte sui muri di un ergastolano»), Rimbaud «redivivus». Quest’ultimo riferimento riguarda la raccolta La Chasse spirituelle, edita nel 1949 e attribuita all’aedo di Charleville. Si tratta in realtà di un falso: Maurice Nadeau e Pascal Pia abboccarono miseramente mentre Breton, con raro acume, denunciò fin da subito l’inautenticità del testo.

Qualche osservazione sulla traduzione. Confrontando le due versioni di Theoria e De Piante si rimane disorientati a causa delle singolari analogie che ricorrono nella resa del testo. Prendiamo l’incipit: «La Francia, che per molto tempo ha diffidato del biglietto di banca, in letteratura è il Paese d’elezione dei valori fiduciari» (trad. Ronìn, p. 13); «La Francia, che ha diffidato per così tanto tempo del biglietto di banca, è in letteratura il paese d’elezione dei valori fiduciari» (trad. Pasquali, p. 15). E ancora: «Molto più importanti e più serie di questi suoi gusti personali, che non osa poi tanto riconoscere, gli sembrano le opinioni che professa sulla letteratura…» (trad. Ronìn, p. 28); «Molto più importanti e più serie di questi gusti personali, che non osa poi tanto riconoscere, gli sembrano le opinioni che professa sulla letteratura…» (trad. Pasquali, pp. 26-27). Si aggiungano le note presenti in calce al testo che spesso collimano parola per parola: basti confrontare l’ultima nota con quella allestita da Pasquali. Che una simile operazione sia stata concepita in chiave mimetica, al fine di rimanere in tema con il malcostume letterario stigmatizzato da Gracq?